#10) FONTAINES DC
A Hero’s Death
[Partisan]
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Un disco maturo e diretto, quello del quintetto irlandese, a poco meno di un anno dall’esplosivo esordio che ha messo tutti d’accordo. Il fatto di limare gli spigoli per ampliare l’audience e mettere d’accordo il maggior numero di persone possibili, fa perdere un tantino di originalità ed incisività ai nostri “dubliners”. Ma comunque questo album si fa apprezzare ed entra in extremis nella top 10 del 2020.
Ruffiano.
#9) ROISIN MURPHY
Róisàn Machine
[Skint / BMG]
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Mi chiedo in che epoca viva l’ex leader dei Moloko. Se chiudessimo gli occhi, ascoltando l’album, avremmo la sensazione di vederla allo Studio 54 di New York, in compagnia dei producers Cerrone o Giorgio Moroder. Un tributo alla disco music anni ’80, a tutti gli effetti. Un album dance, e poi ancora dance e di nuovo dance.
In controtendenza con gli altri artisti coevi della Murphy, che più passano gli anni e più rallentano i BPM e diventano melensi. Lei invece no, pump up the volume.
Danzereccio
#8) BOMBAY BICYCLE CLUB
Everything Has Gone Wrong
[Island]
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Uscito poco prima del lockdown, questo allegro ed arioso disco indie-pop allieta le giornate e scivola via liscio come l’olio. La band londinese la davamo per persa qualche anno fa, invece si ripresenta in questa veste, abbandonando il folk-pop per suoni più indie, quasi synth. E ci si sorprende a fischiettare “Eat, Sleep, Wake (Nothing But You).
Sorprendente.
#7) POLIà‡A
When We Stay Alive
[Mamphis Industries]
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Un incidente ha rischiato di compromettere definitivamente la frontwoman dei Polià§a Channy Leaneagh. E forse questo fatto ha ispirato il titolo dell’album ed il suo mood arioso di rinascita. Il sound è molto ben curato, quasi troppo leccato, non sorprende dato il team di producers che affianca Ryan Olson (Bon Iver, Boys Noize e molti altri). Ma piace davvero molto, ad ogni giro matura dentro di noi e ci conquista.
Ripetibile.
#6) TAME IMPALA
The Slow Rush
[Modular]
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La nuova psychedelia del 2020 ha il sound di questo album di Kevin Parker, in arte Tame Impala.
Una sorta di trait-d’union tra i primi due album (“Innerspeaker”, “Lonerism”) e il discusso “Current”. Il tutto per creare un sound più soft rock, quasi pop, in salsa psichedelica contemporanea. All’inizio lo si ripudia, poi si fa come la lingua che va a cercare la ferita, provando quasi piacere.
Piacente
#5) ANDY BELL
The View Of The Half Way Down
[Sonic Cathedral]
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Costretto in casa nel bel mezzo di un tour trionfale con i suoi Ride, Andy Bell non si è perso d’animo ed ha cominciato a scrivere questo album lo-fi, come un Beck qualunque, ma molto oxfordiano. Sperimentando, ripercorrendo, riscoprendo, sussurrando.
Ne esce un album poliedrico ed eccentrico. Davvero sorprendente ed a tratti geniale nella sua disarmante semplicità .
Disarmante
#4) DOVES
The Universal Want
[Virgin / EMI]
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Ascoltare questo disco è un po’ come sfogliare il libro dei ricordi: ogni brano ricorda una band diversa, un periodo storico della vita che ci lega indissolubilmente a questo o quel brano: gli Stone Roses in “Caroussel”, gli Smiths in “I Will Not Hide” con tanto di voce in pitch-shift stile Ann Coates (“Bigmouth Strikes Again”), gli Starsailor in “For Tomorrow”, i Police in “Cathedrals Of The Mind”, gli U2 in “Cycle Of Hurt”.
Ad ogni traccia ci si sente automaticamente nella propria comfort zone, come se si avesse questo disco nella propria collezione da 25 anni. Il desiderio universale di sentirsi coccolati dalla musica. Lo trovo geniale.
Confortevole.
#3) BOB MOULD
Blue Hearts
[Merge]
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All’ex leader degli Hà¼sker D༠girano ancora molto le scatole. Ecco sprigionata tutta la sua rabbia in questo disco, l’ennesimo, superlativo. 14 tracce dal post punk, all’indie rock passando dal soft core. I racconti di come ha vissuto l’omofobia, le discriminazioni, dalla provincia americana alla sua Minneapolis, scritto prevalentemente a Berlino dove ha vissuto per qualche tempo apprezzandone l’apertura mentale e la tolleranza.
Il titolo rappresenta la volontà che i cuori blu (democratici) tornino alla guida del paese dopo il periodo non certo pacifico targato Trump.
Arrabbiato.
#2) FOUR TET
Sixteen Oceans
[Text Records]
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Kieran Hebden, al secolo Four Tet, non sbaglia un colpo. Ormai la sua musica è matura ma non per questo ripetitiva o standardizzata. Ad ogni pubblicazione l’artista di Putney, Sud di Londra, consolida la sua posizione e non delude mai. Colleziona samples di jazz e folk e li ripropone sulle sue texture elektro, rendendo i suoi brani club-ready.
Una chicca per chi lo ha acquistato in vinile, il lato D presenta una dozzina di campioni che entrano in loop finchè non si sposta la puntina. Coup de Maà®tre.
Chapeau
#1) GREG DULLI
Random Desire
[Royal Cream / BMG]
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“Quanto dista? Quanto tempo?”
Ancora non si riesce a disgiungere il lungo percorso di Greg Dulli da questa domanda, scritta nel booklet di “Gentleman” al tempo dei suoi Afghan Whigs. La nostra speranza è che quel cammino possa durare ancora a lungo, se il nostro continuerà a tracciarlo con brani di desiderio casuale, come il titolo dell’album tradisce.
La visione del mondo di Greg è ancora intrisa di passioni, di dolore, di emozioni forti a tinte noir, di decadenza.
Lo spettro sonoro si ampia, mettendo a frutto anche la seconda incarnazione dell’artista, quei Twilight Singers tanto apprezzati per le poliedriche sonorità .
Lo si accosta dapprima con diffidenza, poi con curiosità . Infine, quando si raggiunge la comfort zone è davvero dura rimetterlo nella custodia. Per distacco.
Desiderabile.