“Mi chiamo Francesco Totti” è un documentario bellissimo e particolare. A meno che non si abbiano particolari problemi di malafede o di antipatie ataviche dovute alla propria fede calcistica, è difficile non provare simpatia per l’uomo Totti: un eterno ragazzone, un pupone per l’appunto, semplice e spontaneo, talvolta anche buffo.
Questo il saggio Infascelli lo sa bene, così invece di costruire il personaggio Totti e ricostruire le tappe fondamentali della sua carriera attraverso interviste a colleghi e giornalisti, lascia che sia proprio il capitano della Roma, con la sua inconfondibile cadenza romanesca e sincera, a raccontarsi in un lungo rewind che parte dal giorno del suo addio al calcio.
La pecca di un approccio del genere è la mancanza di contraddittorio, che però pesa soltanto nelle, invero poche, pagine controverse della storia del campione – la seconda esperienza con Spalletti come allenatore della Roma su tutte, che viene fatto passare praticamente per un folle, un irragionevole, se non proprio per un uomo capriccioso e in cattiva fede.
Per il resto la storia scorre piacevole e, spesso, emozionante. Specie per chi ha potuto vivere in tempo reale le vicende di uno dei calciatori più forti della sua generazione e una delle bandiere più legate di sempre alla sua città e alla sua squadra.
Perchè, piaccia o no, tutti vorremmo un Totti nella propria squadra del cuore.