Succede sempre così con i Notwist: quando pubblicano un nuovo disco pensi di dover fare confronti con i loro lavori precedenti, ed ogni volta ti ritrovi tra le mani qualcosa che è certamente loro, ma che vive su un piano irrimediabilmente diverso. Certo aiuta il fatto che tra un album e l’altro passino spesso molti anni (sette, in questo caso) e che nel frattempo la inesauribile vena creativa dei fratelli Acher abbia modo di esprimersi in direzioni centrifughe: colonne sonore, side projects, collaborazioni, nonchè un’etichetta discografica (Alien Transistor) e un festival (Alien Disko).
“Vertigo Days” è in un certo senso una colonna sonora di un film immaginato nelle menti della band, dove le tracce non iniziano e finiscono ma si evolvono, mutano e si trasformano. Ci sono le canzoni, le inconfondibili melodie di Markus Acher, ma vivono in un ambiente liquido fatto di code, intermezzi, legami. Novità ancora più grossa, convivono con molte altre voci, non semplici guest ma vere protagoniste: Saya dei Tenniscoats che canta in giapponese nel singolo “Ship”, Ben LaMar Gay che scrive e interpreta la storia di amore e rivoluzione di “Oh Sweet Fire”, Juana Molina che in “Al Sur” firma forse il pezzo migliore del disco, una miscela esplosiva di sintetizzatori e percussioni dove il testo in spagnolo crea un ponte impossibile tra il Krautrock e l’America del Sud.
Questo disco segna anche la fine del lungo sodalizio con Martin Gretschmann (che ha lasciato la band dopo il precedente “Close to the Glass”) e l’ingresso in formazione del polistrumentista Cico Beck, che li ha accompagnati nei tour degli ultimi anni. L’elettronica di Gretschmann era fin da “12” (1995) e ancor di più a partire da “Neon Golden” (2002) uno dei marchi più riconoscibili della band tedesca e l’assenza della sua impronta è evidente in queste nuove 14 tracce. Ma in fondo non si tratta di una cesura netta: l’ingresso di Andi Haberl alla batteria nel 2007 e del norvegese Karl Ivar Refseth alle percussioni nel 2010 avevano cominciato lentamente a ridefinire lo spettro sonoro del gruppo. Il live album “Superheroes, Ghostvillains + Stuff” del 2016 mostrava in filigrana i nuovi equilibri in formazione, come il recente tour dedicato ai quadretti strumentali di “Messier Objects”. Ma è solo ora che vediamo chiaramente il risultato di anni di lenti ma importanti aggiustamenti.
C’è qualcosa di grezzo e ruvido nella superficie di “Vertigo Days”, una precisa inversione di rotta rispetto al percorso naturale di levigare sempre di più ogni suono. La foto di copertina, della fotografa giapponese Lieko Shiga, è perfetta in tal senso: in evidente contrasto con gli oggetti asettici di “Close to the Glass”, Shiga cattura un paesaggio naturale caotico eppure ordinato, reale e surreale. Se l’apertura strumentale di “Al Norte” potrebbe essere presa da “Messier Objects”, la seconda traccia “Into Love / Stars” fornisce una migliore introduzione: un pianoforte acustico di cui sentiamo il rumore delle meccaniche lascia spazio a un piano elettronico che rallenta il tempo. Entra la voce di Markus Acher, poi una melodia di vibrafono, il basso, un organetto. Una chitarra acustica, un minuscolo coro di Saya, e infine una drum machine che entra in dissolvenza, cambia tempo di nuovo e si prende la scena: sono passati solo 3 minuti.
Il viaggio continua senza soluzione di continuità nella successiva “Exit Strategy to Myself”, pura melodia Notwistiana con basso e chitarra elettrica a dare il ritmo, che culmina in un synth distorto e dissonante che entra improvviso e affoga ogni cosa. Un secondo di respiro e si riparte con “Where You Find Me”, 2’30” di pop cristallino che sfociano nella filastrocca esotica di “Ship”, estremi che si toccano e si svelano non poi così lontani. “Loose Ends” torna intimista, sussurrata, centrata sulla vecchia passione dei Notwist per le metafore ferroviarie: “I binari, i binari / Continuano a riportarmi indietro”. Decisamente più jazzy “Into the Ice Age” arricchita dal clarinetto di Angel Bat Dawid, preludio al baritono di Ben LaMar Gay su “Oh Sweet Fire”. Ispirato dalle manifestazioni Black Lives Matter, il testo scritto dal musicista statunitense è romantico e viscerale in modo opposto alla malinconia tipica di Markus Acher.
Le atmosfere si alleggeriscono di nuovo con “Sans Soleil” (“I miei piedi sono bloccati nella pietra / Ma la mia testa è sulle nuvole”) e nella ninna nanna “Night’s Too Dark”. Un altro breve intermezzo strumentale ed ecco entrare in scena Juana Molina mentre la band si limita ad accompagnarla, in “Al Sur” l’artista argentina costruisce un irresistibile esempio di folk sperimentale che esplode nella sua voce armonizzata che ci porta letteralmente al sud “” “Guarda, è una stanza luminosa, aperta, guarda il mare / Potrebbe essere perfetta, ma il sole non c’è”. Ci vuole coraggio per inserire un pezzo come questo in un disco dei Notwist, e ci vuole molta bravura per farlo risultare coerente, diverso eppure complementare. Markus Acher torna per un ultimo commiato, riprendendo la melodia di “Into Love”, stavolta accompagnato dagli ottoni dei giapponesi Zayaendo che in punta di piedi la reinterpretano in una veste delicata e sinuosa, teletrasportandoci di nuovo altrove.
Scartate diverse idee scaturite negli anni precedenti, i Notwist hanno detto di aver trovato la chiave per questo disco quando l’hanno immaginato come un “mixtape”. Lasciandosi andare a lunghe sessioni di improvvisazione in studio e collegando i pezzi uno all’altro come da anni sperimentano nei loro live, hanno costruito un disco da ascoltare come un unico lungo racconto, dove il confine tra una canzone e la successiva è quanto mai labile e il totale è largamente superiore alla somma delle parti. L’altro elemento decisivo, secondo la band, è stata la scelta di lasciare carta bianca agli ospiti. Se non è una novità il loro interesse per diversi orizzonti musicali, dimostrato nel festival Alien Disko e in numerosi side projects come il recente Spirit Fest, è la prima volta che queste sonorità vengono accolte all’interno del progetto Notwist.
Più di venti anni fa David Byrne scriveva che mentre parlare di “world music” era un modo di riasserire l’egemonia della cultura occidentale, ascoltare la musica di altre culture ci permette di cambiare la nostra visione del mondo e trasformare quello che prima era esotico in una parte di noi stessi. Quelle frasi sembrano risuonare alla perfezione quando Markus Acher dichiara che in questo album volevano “aggiungere altre voci e idee, altre lingue, e anche mettere in dubbio o sfumare l’idea di identità nazionale”. Per un gruppo che in trent’anni di carriera non ha mai parlato di politica, diventa un modo per reinventarsi, ancora una volta.