Il titolo la dice lunga riguardo al nuovo disco del duo composto da Andrea Biondi e Jacopo Ferrazza, che in onore del pensiero kierkegaardiano scelgono di dare alla loro nuova creatura il nome “Aut Aut“; ed ascoltando le dieci tracce del disco, vien da pensare che i due musicisti non avrebbero potuto scegliere nome più adatto.
Come il suo correlativo filosofico, “Aut Aut” divide e seleziona il pubblico tra chi può e chi invece non possiede gli strumenti necessari per capire la musica di Biondi e Ferrazza; attenzione, però: basterebbe pochissimo (sopratutto al giorno d’oggi) a rinchiudere la portata del lavoro del duo ad un operazione nostalgica di ulteriore “innicchiamento” della musica elettronica (quella d’autore, che non ammicca obbligatoriamente al dancefloor).
La realtà è diversa, attraverso sfumature di senso e ricerca che guardano alla resistenza etica ed estetica piuttosto che al nostalgismo fine a sè stesso: i due producer scelgono la via più ardua per arrivare all’ascoltatore, avendo ben chiara in mente la volontà di proporre una complessità che possa essere ri-educativa, incapace di rarefarsi nell’ipersemplificazione merceologica della musica a “qualcosa di cui fruire”.
Alla musica “usa e getta”, Ferrazza e Biondi preferiscono la musica che non si fa usare perchè difficile da maneggiare, capace magari di spaventare chi non conosce la materia stimolando allo stesso tempo il dibattito circa la necessità di rendere competente l’ascoltatore, ormai vittima seriale degli abusi dell’ascolto consumistico propinato dall’industria. In questo senso, “Aut Aut” diventa esercizio per l’ascolto attivo e confronto con la complessità del reale attraverso dieci tappe incapaci di assecondare il pubblico ma intenzionate a sfidarne la capacità di comprensione: scorci di riflessione e introspezione che sembrano articolarsi senza soluzione di continuità lungo il perimetro instabile di un disco magmatico, che leva ogni punto di riferimento al destinatario dopo averlo tolto al destinante.
Sì, perchè di fronte alla materia mobile di “Groovy” o “Creation” la mano (e le intuizioni armonico-ritmiche) dei due compositori sembra obnubilarsi dietro il continuo divenire senza posa della non-forma musicale, incapace allo stesso tempo di precludersi larghi cantati (come in “Revelation”, o nella conclusiva “Tia Mak”) che richiamano alla musica d’arte in un dialogo continuo tra contemporaneità e tradizione, con riferimenti al lied schumanniano come alla distorsione percettiva ricercata dagli Area, o alla psichedelia di chiara influenza pinkfloydiana.
Insomma, un ottimo lavoro che testimonia l’esistenza in Italia di un’inossidabile resistenza, impegnata a combattere sul duplice fronte: da una parte, contro l’abuso dell’industria, che senza posa omologa e atrofizza l’orecchio dell’ascoltatore-consumatore moderno; dall’altra, in sostegno alla trasmissione di un modo di “fare musica” che possa tornare a pretendere il proprio diretto di esistenza come pratica che necessita di competenze, per farsi davvero operativa.