Cos’è Sanremo? In fondo è uno specchio. Lo specchio di quella parte del paese che preferisce adagiarsi; quella che si accontenta delle briciole; quella che si lascia manipolare, tanto nelle scelte più frivole e superficiali, quanto in quelle politiche ed economiche, quelle che determineranno il futuro delle prossime generazioni.
è la parte del paese troppo pigra per andare al di là di ciò che dice la televisione o che suggeriscono i media tradizionali e generalisti. Siamo o non siamo quelli che la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente? A noi va bene tutto, purchè ci diano il nostro bell’osso da rosicchiare, perfettamente allineati al motto “o Franza o Spagna, purchè se magna“. E noi siamo ancora lì, nel nostro secolare immobilismo, ad erigere le nostre colonne infami, a dare la caccia ad untori inesistenti, ad affidarci ai palliativi di buffoni e saltimbanchi, a chiedere sconti e favori, a elogiare i bravi ragazzi, a fare ciò che ci pare purchè sia possibile farlo di nascosto. Come possiamo pretendere di esser rappresentati da politici migliori?
Loro sono noi e noi ““ sotto, sotto ““ siamo loro. Abbiamo i nostri riti: il campionato di calcio, il mare d’estate e il Festival di Sanremo. Chi se ne frega degli altri teatri chiusi, dei musei, dei locali che falliscono, dell’istruzione umiliata, delle scuole, dei banchi a rotelle, dei DPCM, degli applausi finti, della salute mentale delle persone. Questa è la settimana santa del chiacchiericcio e degli schiamazzi, amplificati a dismisura da tv, radio, talk show, dirette social e chi più ne ha più ne metta. Non pensateci neppure per un momento che c’entri qualcosa la musica. Al massimo potrebbe essere coinvolta qualche casa discografica, anche se, il più delle volte, a Sanremo, i brocchi vengono scambiati per cavalli da corsa. E poi, tra qualche settimana, magari qualche mese, quando sarete in spiaggia, vi chiederete, puntualmente, chi ha vinto il Festival.
Il Festival, questa via crucis nazional-popolare a trazione televisiva, specchio d’un paese che vive in uno stato perenne di playback dozzinale e mortificante, un paese che crede che, per salvarsi, sia sufficiente agitare un po’ il suo bel didietro.
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