E così, in un freddo sabato mattina di fine febbraio, è sbucato fuori dal nulla un nuovo album dei Fine Before You Came. “Forme complesse”, il sesto lavoro della band milanese, è arrivato in prima battuta come link allegato a una misteriosa mail fatta recapitare agli iscritti della newsletter: un player al centro di una pagina praticamente vuota, senza la possibilità di skippare tra i brani. Poi, a poche ore di distanza, l’opera si è “materializzata” su Bandcamp, con tanto di copertina, titoli, testi e qualche laconica indicazione. Niente Spotify; CD e vinili disponibili per l’acquisto solo su internet; ancora nessuna intervista per le presentazioni ufficiali.
Senza clamore o battage pubblicitario, a una manciata di giorni dall’inizio di un Festival di Sanremo che è stato l’apoteosi del surreale, il quartetto lombardo ha deciso di dare una scossa alla vera musica italiana indipendente, svelando in un assordante silenzio un lato incredibilmente fragile, sofferente e umano del proprio stile. Sette tracce che nascono nei mesi più bui di un’emergenza sanitaria che, imperterrita, continua ad attanagliare esistenze che ormai si trascinano per inerzia, tra giorni e notti pieni di niente se non ansia, solitudine e terrore.
“Forme complesse” è la perfetta fotografia di un periodo apparentemente interminabile che, con ottime probabilità , sarà ricordato dai posteri come una delle pagine più spaventose della storia. Il post-rock dalle venature emo dei Fine Before You Came non è mai stato così spoglio, crudo e intimo. Siamo lontani anni luce dalla carica viscerale di “Sfortuna” e “Ormai”, quindi non aspettatevi in alcun modo materiale da pogo. Questo disco, forse per essere il più possibile fedele agli sciaguratissimi tempi che stiamo attraversando, sembra essere stato scritto apposta per venir suonato in un locale vuoto, in cui domina un senso di quiete che sa di irrequietudine.
Non c’è vera rabbia, ma solo tanta vulnerabilità . La sezione ritmica, composta dal bassista Marco Olivero e dal batterista Filippo Rieder, si limita a costruire delicatissime impalcature per gli accordi e gli arpeggi dei chitarristi Mauro Marchini e Marco Monaci. Dai loro intrecci prende forma un suono che si sviluppa seguendo gli umori di un fenomenale Jacopo Lietti, che canta con la voce costantemente rotta dalle emozioni.
Alle sonorità cupe, stratificate e tese della title track, di “Intorno” e di “Acquaghiaccia” fanno da contraltare la vastità della fragilissima “Gittana” e le sfumature slowcore di una “Interludio con vento” dalle tinte tenui e di una “Piano Impreciso” che, quasi nascondendosi dietro un esile sottofondo di pioggia, colpisce con forza sbattendoci sotto il naso la tragica spietatezza della cosiddetta nuova normalità (Se finito tutto, finisce anche il normale/Come stavate voi con tutto quel daffare attorno/Dove eravamo quando il superfluo era all’ordine del giorno).
Ma la canzone che meglio di tutte riesce a raccontare questi mesi di enorme sofferenza è senza ombra di dubbio la meravigliosa “Cogoleto”. Non tanto per quanto riguarda il lirismo di un Lietti che, seppur illuminandoci con suggestive immagini poetiche (Vassoio il cielo sulla mano di un cameriere esperto, stanne certo, la luna non cadrà ), ci tiene fermi alla cara, vecchia sporca realtà (Ho sentito tutta la notte un uomo vomitare al piano sopra di noi/Forse era malato o aveva bevuto un po’).
La vera bellezza di questa traccia ““ che, mi sento in vena di esagerazioni, voglio definire un piccolo capolavoro ““ è tutta nella sua evoluzione strumentale, culminante in un crescendo davvero da pelle d’oca. Il lento ed essenziale scandire del tempo sui tom e sul timpano; la linea di synth che immediatamente ci avvolge in un velo di impenetrabile oscurità ; le urla lontane che fanno da contorno ai sussurri del cantante; il monumentale riff finale, climax di un brano già intensissimo: i Fine Before You Came di “Forme complesse” riescono a unire tra loro questi piccoli elementi e a trasformarli in un paesaggio sonoro straordinariamente evocativo, nel quale io personalmente ci ho visto le ombre di una routine spezzata, di una tranquillità perduta e dei volti di conoscenti, amici e colleghi fisicamente svaniti, spazzati via dalla crudele necessità del distanziamento. Un colpo al cuore, ma ne vale la pena.