Settimo album per i Maxà¯mo Park, una di quelle band che nel primo decennio dei duemila, tra Kaiser Chiefs, Bloc Party, The Fratellis e compagnia bella, aveva fatto ben sperare con quel post-punk revival che invece difficilmente ha trovato, al netto di poche eccezioni (Franz Ferdinand, The Strokes, Arctic Monkeys, …), sèguito alle promesse/premesse: questo nonostante i due primi album della band di Newcastle (“A Certain Trigger” più di “Our Earthly Pleasure“), senza far gridare al miracolo, fossero riusciti ad accaparrarsi discreti e sinceri consensi, commerciali e di critica.
Da lì, e non è ieri, poca roba: cambi di formazione, un Paul Smith che spesso e volentieri ha provato a battere strade in solitaria, ma di un album (o anche solo di un pezzo?) per cui valesse la pena trovare uno slot nell’hard disk dei ricordi tracce zero o giù di lì.
I presupposti per sparare, once again, a zero ci sarebbero quindi tutti: e invece.
E invece già dall’opener “Partly of My Making”, elettrificata ed elettronica nella ricerca di un buon grado di anthemico, le sinapsi della curiosità si attivano. Perchè funziona pure la seconda prova, “Versions of You”, che viaggia sul binario caro ai The Killers (che ritroviamo anche in “All of Me”).
Si sente la mano in cabina produzione di Ben Allen, e il padrone di casa Paul Smith è in forma: scrittura curata (e più matura), melodie azzeccate, voce poliedrica riconoscibile tra migliaia; la chitarra di Lloyd è altrettanto in palla, graffia con riff rock d’ordinanza (“Baby Sleep”, “Ardour”, quest’ultima con Pauline Murray dei Penetration alle backing vocals, “I Don’t Know What I’m Doing”), tocca note più brillanti (“Placeholder”, “The Acid Remark”), trova modo di ben incastrarsi con la sezione vocale affidata a Smith, e sempre di livello.
Meno fortunate alcune escursioni (nel synth-pop con “Meeting Up”, o con l’evocativa chiusura demandata a “Child of The Flatlands”) e, certo, a livello di vette stilistiche, di originalità , di spessore artistico degno di futura memoria, poco anche in questo episodio: ma “Nature Always Wins” risulta fresco, edibile, non così scontato, tutto sommato gradevole, senza dover ricorrere a scimmiottare i geordie boys che essi stessi sono stati o ostentando padronanza in territori sonori che non fanno per loro.
E viste le ultime mosse, e le attese, tutto questo non è da buttar via.