Dopo una comparsa alla tiny desk di NPR, un EP e qualche singolo, Indigo Sparke ha finalmente rilasciato il suo album d’esordio: Echo.
Oltre ad aver curato la recensione, ho avuto il privilegio di poter intervistare la cantante e chitarrista australiana via Zoom, e ho discusso con lei temi davvero disparati, ripercorrendo la sua vita ed il suo rapporto con la natura e la musica, passando per le relazioni amorose e la pandemia.
Oltre ad essere musicalmente talentuosa, Indigo Sparke possiede la capacità innata di dare voce in maniera cristallina, ma allo stesso tempo poetica, ai propri sentimenti e pensieri più profondi, riproducendo quella sensazione di totale empatia che pervade l’ascoltatore quando si accinge ad ascoltare la sua musica.
Ma basta preamboli: vi lascio alle sue parole.
Ciao! Innanzitutto vorrei ringraziarti per il tempo che mi stai dedicando. è davvero raro che un artista abbia voglia di rilasciare un’intervista in videochiamata, di solito tutti preferiscono rispondere via email alle domande che inviamo all’agenzia di management. Per cui grazie mille, lo apprezzo molto.
è un piacere per me!
Sei cresciuta in Australia e ho letto da qualche parte che il tuo nome è stato ispirato dallo splendido brano “Mood Indigo” del leggendario jazzista Duke Ellington.
Com’è stata la tua infanzia e quanto il contesto in cui sei nata e cresciuta ha influenzato la tua personalità e la tua arte?
Beh, la mia mamma è una cantante jazz per cui sono cresciuta in un mondo fatto di musica. Arrangiava musica, curava le partiture per vari cori, insegnava canto e, soprattutto, ascoltava tantissima musica.
Penso che tutto questo abbia costituito le mie fondamenta.
Mio padre è un chitarrista e anche lui canta: ricordo che passava le giornate a fare cover di pezzi di Neil Young… La musica con cui sono cresciuta da piccola è ancora la mia preferita, penso sia stata in grado di trasportarmi in mondi diversi. Spesso percepiamo la musica che amiamo come una sorta di posto sicuro per noi. Per me è ancora così.
Il tuo profilo Instagram è pieno di splendide fotografie, dipinti e Polaroid scattate in spazi aperti anche selvaggi. Sembra che tu abbia un forte legame con la natura. Mi sbaglio?
No, non sbagli affatto. Quando ero piccola passavo la maggior parte del tempo all’aperto, in campagna.
Ho frequentato una scuola steineriana (si tratta di una tipologia di insegnamento che segue la pedagogia Waldorf, approccio educativo creato dal filosofo Rudolf Steiner, ndr), i cui principi sono molto attenti al rispetto della natura e alla comprensione dei suoi ritmi. Con gli altri bimbi facevamo tanti campi scuola, ricordo che cuocevamo cose… Ed è strano perchè quando ho attraversato l’adolescenza, fino ai vent’anni, ero molto più interessata alla vita di città . Solo verso i 25 anni ho ricominciato a sentirmi connessa con la natura, a riscoprire quanto sia meravigliosa e quanto io abbia bisogno di spazi aperti per sentirmi bene nel mondo.
Come stai vivendo questa assurda esperienza della pandemia e, secondo te, l’isolamento forzato in cui ci troviamo da un anno è così male come sembra?
(Sorride, ndr) Sì e no. L’isolamento forzato è in realtà un magnifico dono per passare del tempo con noi stessi senza avvertire la pressione di essere travolti dal mondo, dai suoi ritmi, dalle scadenze, dai contratti che ci vogliono pronti e vigili 24 ore su 24. Penso, almeno per me, che sia meraviglioso avere questo tempo per consolidare me stessa, le mie fondamenta, i miei valori, come vedo il mondo e come vorrei interagire con esso. Penso sia una cosa bella ma, allo stesso tempo, che l’isolamento rappresenti una sfida complicata per molte persone, me compresa. Siamo esseri sociali e non avere quella connessione umana di cui abbiamo così bisogno è orribile. Per concludere, non penso si possa crescere, in senso lato, senza instaurare relazioni con altri esseri umani, ma allo stesso tempo non c’è sviluppo senza conoscenza di sè.
Ho avuto la possibilità di ascoltare il tuo disco in anteprima, e ne sono rimasta incantata. La tua voce è allo stesso tempo dolce e profonda e arriva direttamente al cuore dell’ascoltatore. Dov’eri, fisicamente e mentalmente, quando hai registrato “Echo”?
Fisicamente, mi trovavo in America, tra Los Angeles e New York. Ho anche registrato una parte dell’album in Italia, a dire il vero.
A livello mentale, invece, ero come in uno stadio liminale, presa da tanti movimenti. Ero molto proiettata verso la riflessione in me stessa: stavo cercando di capire il modo in cui sto al mondo, il modo in cui gestisco le mie relazioni interpersonali. All’epoca ero in una relazione romantica, e quella cosa occupava molto della mia sfera emotiva… si sa, come in ogni relazione c’è sempre tanta bellezza ma anche tante difficoltà , cose che vengono a galla, traumi, triggers…(ride, ndr). Insomma, stavo cercando di comprendere me stessa su molti aspetti, in quel periodo.
Ed ero anche molto nervosa ed eccitata, allo stesso tempo, per la fase di registrazione del mio primo album. Cercavo il modo migliore per scrollarmi di dosso l’ansia e tutte quelle domande sul come sarebbe dovuto venire fuori, come avrebbe dovuto suonare…
Ascoltando l’album, si ha come l’impressione di essere trasportati in uno spazio aperto, desertico. Come avete ottenuto quest’atmosfera nel corso della produzione di “Echo”?
Durante la produzione, io e Adrienne (Lenker, che ha coprodotto l’album per Sacred Bones, ndr), abbiamo parlato tanto del fatto che non volevamo che il disco risultasse “affollato” o pieno. Penso che questa cosa abbia aiutato moltissimo a rendere il disco accessibile in qualche modo. L’atmosfera emotiva dei brani è nata dal fatto che io mi trovassi, a livello fisico e figurativo, in enormi spazi aperti e desertici, – guidavo tantissimo da un posto all’altro in quel periodo -, per cui questo elemento è fluito naturalmente nei pezzi. Mi sembra meraviglioso e speciale che tu abbia percepito tutto questo dall’ascolto! (Ride, ndr)
Grazie! “Echo” è un album country. La tua voce e la tua abilità nel suonare la chitarra sono gli unici elementi coinvolti. Ed è sorprendente, per me, poichè siamo abituati a produzioni e strutture musicali che, in fin dei conti, ci distraggono dal potere delle parole e dal messaggio che l’artista vuole comunicarci. Cosa ne pensi?
è interessante, perchè ci sono stati periodi della mia vita in cui mi sono sentita molto in ansia e molto critica rispetto alla mia musicalità , mettendo in discussione la mia capacità di suonare la chitarra, in particolare. Non sono un mostro di talento con la chitarra, questo lo so bene, infatti mi sono sempre adattata a quelle che sono le mie capacità . Cantare, invece, è diverso: è un qualcosa che mi viene molto più naturale. In quel periodo di incertezza sulle mie skill musicali, mi è stato detto “Stai tranquilla: alcune delle più belle canzoni di tutti i tempi hanno solo 3 accordi!”, e io cerco sempre di ripetermi questa cosa quando non mi sento all’altezza.
Una volta ero al telefono con mio padre prima di un concerto e ricordo che mi disse: “Tutto ciò che devi fare è andare sul palco ed essere vulnerabile ed autentica. Questo è quanto. Sii reale, perchè ciò che la gente vuole è che il tuo cuore sia accessibile”. Quello è stato un consiglio speciale per me.
Prima ho menzionato i testi. Li ho trovati molto profondi ed empatici: in particolare, “Dog Bark Echo” è un’esperienza. Potevo davvero sentire il gufo o il cane abbaiare in sottofondo. Lo stesso per “Wolf”, che è così intima, dolce e sensuale. Quanta realtà e quanta fantasia vengono coinvolte nei tuoi testi? Ti andrebbe di condividere il modo in cui, di solito, scrivi?
I brani nascono sempre dalla realtà , dalla mia esperienza, anche se la cosa può cambiare. La realtà è la base di partenza, ma mi piace ricamarci su e viaggiare con la fantasia, sognando e immaginando le cose. Non credo di avere un modo standard di scrivere canzoni: finora, è stato un procedimento molto intuitivo, che tende ad arrivare improvvisamente, come un’esigenza. Ad esempio quando sto esperendo qualcosa di davvero viscerale, per cui devo parlarne e scriverne.
Altre volte scrivo su un pezzetto di carta un sentimento, una sensazione, una parola su cui sto rimuginando per poi rielaborarla e improvvisarci su musicalmente. Ci sono stati casi in cui mi sono seduta e, letteralmente, la canzone è venuta fuori per intero in qualche minuto. è una cosa bellissima, ma che non riesco a forzare o ripetere. (Ride, ndr)
Il disco si conclude con la splendida “Everything everything”, che porta con sè un messaggio molto preciso: vivere la vita è un’esperienza circolare, ricordi ed emozioni considerate, e tutto sta morendo poco a poco. Come sei arrivata a questa conclusione?
Penso che sia un qualcosa su cui ho riflettuto molto nel corso degli anni.
Ci sono giorni in cui sono immersa nella coscienza del fatto che niente è per sempre, che stiamo tutti morendo, che tutto è in perenne cambiamento. Ciò è debilitante, per me.
Altre volte, invece, mi sento illuminata perchè sento come se non appartenessi esclusivamente a questo corpo, riuscendo a percepire la grandezza dello scopo della nostra stessa esistenza. è qualcosa che non riesco ad articolare a parole, perchè mi sembrano troppo limitate per poter esprimere un concetto così gigante. Sento una sorta di arrendevolezza nel sapere e capire che tutto ciò è così bello, che ci riguarda tutti, che tutti percepiamo la natura, le stagioni che cambiano, i fiori che muoiono, attraversano l’inverno e tornano a sbocciare in primavera.
Trovo molto strano il fatto che noi esseri umani non giudichiamo la natura, mentre quando tocca alla condizione umana, alla società , ci portiamo dietro tutti questi giudizi.
“Everything everything” è venuta fuori poichè in quel periodo mi sentivo estremamente libera e in pace, e stavo accettando la realtà che viviamo riuscendo a vederne la bellezza. Mi trovavo a New York e mi ricordo che camminavo senza meta per Brooklyn rendendomi conto che vita, morte, dolore, amore, girano tutti intorno al concetto di essere umani.
Quali sono state le tue ispirazioni artistiche mentre scrivevi “Echo”?
Cambiavano continuamente, ti dico la verità , ma si concentravano sui concetti di amore, dolore e perdita. Tantissima musica e poesia mi ha ispirata in quel periodo, troppa da nominare.
Ho percepito “Echo” come un processo di guarigione ancora in atto. A che punto della tua vita e della tua carriera ti trovi?
Oh wow, grazie, questa è una bellissima domanda.
Penso tu abbia ragione, è stato un processo di guarigione per me. E non penso sia giunto al termine, a dire il vero. Anzi, non so se il processo di guarigione, o quello di crescita, ha mai una fine. Al momento, sento di esservi ancora immersa.
Cerco le mie fondamenta come donna nel mondo: a volte mi sento terrorizzata, a volte invece è liberatorio. Penso che questo rifletta anche il modo in cui mi sento a livello creativo e a livello di carriera: sto crescendo e credo di aver capito qual è il mio posto. Sto pensando di registrare un nuovo album e, di nuovo, mi sento terrorizzata e super eccitata a riguardo. Mi sto impegnando ad “arrendermi” di più, cercando di capire che il mio percorso è unico e specifico e che non ha senso paragonarlo a quello degli altri.
Penso sia molto pericoloso, di questi tempi, con i social media, compararsi costantemente al prossimo e chiedersi “perchè a me è andata così?”. Non sappiamo mai cosa stia passando davvero chi abbiamo di fronte.
Ho guardato il documentario di Billie Eilish, (“The World’s A Little Blurry”, uscito lo scorso mese in esclusiva Apple TV, ndr) di recente, e mi ha davvero travolta. Sono felice che l’artista abbia mostrato la sua vulnerabilità e, più in generale, cosa c’è dietro a una pop star di fama globale che ci rimane così facile giudicare dall’esterno. In realtà si tratta di esseri umani identici a me, a te… Il percorso di Billie e di suo fratello e produttore Finneas è così diverso dal mio, ma in quel momento avrei voluto solo abbracciarla perchè capisco che si tratti solo di una ragazzina con una pressione assurda sulle spalle.
Grazie mille per il tuo tempo e la tua pazienza, non vedo l’ora di ascoltare il tuo prossimo capitolo!
Grazie a te per le domande così riflessive, mi ha fatto piacere conoscerti!
Photo Credit: Adrianne Lenker
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