E’ un disco d’altri tempi quello confezionato dal duo Franzoni-Zamboni, da ascoltare pian piano, assorbendo parola per parola e suono dopo suono, lontano dalle produzioni “strillate” e patinate presenti anche in certa musica che si spaccia come “d’autore”.
Loro, al contrario, possono permettersi di non temere confronti paragonandosi a certi cantautori, anche appartenenti al continente americano (territorio musicale e culturale che pare più affine), visto il modo in cui all’interno di questi dieci brani riescono a risultare credibili e veri, e soprattutto mossi da genuini e sinceri propositi.
Le loro canzoni nascono più da un’esigenza che da un’urgenza, non sono certo venute “di pancia” ma ciò non significa che siano costruite a tavolino, soltanto che sono il frutto di anni di esperienze e suggestioni, spesso e volentieri pure condivise (i due artisti bresciani si conoscono da vent’anni e hanno avuto modo di collaborare a più riprese, citiamo almeno il progetto Noverose): racconti – perchè si tratta non di rado di brani dal forte impatto narrativo – che ne mettono in luce il grande talento compositivo e una certa raffinatezza esecutiva e vocale.
A colpire, sin dall’eponima traccia d’apertura, non è soltanto la resa di atmosfere fumose, notturne e tremendamente affascinanti, ma proprio la tangibile, naturale intesa tra Marco Franzoni e Manuele Zamboni, che si alternano a voce principale e cori, senza far denotare nell’ascoltatore uno stacco stilistico, proprio a livello interpretativo.
Per quanto, per loro stessa ammissione, gli spiriti guida nella realizzazione di questo lavoro siano anche assai differenti (vengono citati in fase di presentazione Piero Ciampi così come i Calexico, ma anche i mostri sacri Bob Dylan ed Enzo Jannacci, di cui rifanno mirabilmente la celebre “Vincenzina e la fabbrica”), è evidente, man mano che scorrono i brani, che quello trasmesso è un album compatto, coeso, che non assomiglia a nessun altro, specie nell’attuale panorama musicale tricolore.
Canzoni come l’allusiva “Ti aspettavo” (caratterizzata da un’ottima chitarra e da un arrangiamento sublime), la placida “Non fa rumore la primavera”, la generazionale “Tenendo gli occhi spenti” (in cui aleggia il fantasma dei Negrita più ispirati) o la paradigmatica e nostalgica “Vent’anni” trasudano passione, consapevolezza e quella malinconia sottile legata allo scorrere del tempo.
Il disco nell’insieme mostra una cura per i dettagli notevole, una pulizia sonora che tuttavia non nasconde le spigolature e quello strato di polvere che crea mentalmente un aggancio con un immaginario country e blues, seppure in fondo nessuno dei due mondi musicali venga evocato in maniera calligrafica.
Ciò che personalmente mi colpisce è il coinvolgimento di tanti musicisti (tra cui il batterista texano Jonathan Womble, da subito in sintonia con i due titolari del progetto) e di una policroma strumentazione, specie riferendomi all’utilizzo dei fiati che conferiscono gran spessore ai singoli episodi, anche se occorre evidenziare come, nel contesto di un album senza pericolose scivolate o particolari appannamenti, vi sia un pezzo che invece brilla di luce proprio, spiccando già a un primo ascolto.
Sto parlando della terza traccia, “Gesù tascabile”, in grado con la potenza evocativa delle sue parole e con una musica coinvolgente, profonda ed emozionante (con tanto di finale spiazzante ad opera della Fanfara dei Cugini di Montagna) di alzare di mezzo punto il valore dell’intera opera.
Se ancora non fosse chiaro, vi consiglio vivamente di dare una chance a questo album, uscito molto sottovoce ma che grazie a una propria qualità intrinseca e alla bontà dei suoi autori, potrebbe facilmente catturare la vostra attenzione per non lasciarvi più.
Credit foto: Paolo Lazzaroni