è di nuovo venerdì e seguendo la traiettoria del volo di un moscone – dal ronzio più emozionante di tante cose sentite ultimamente – ho percepito l’esigenza, da parte dell’Universo, di sapere (anche) la mia sulle ultime pubblicazioni musicali del Belpaese; è per questo che, signore e signori, ho deciso di comunicare urbi et orbi il mio bollettino del giorno sulle nuove uscite del pop italiano. Sì, quel tragico, ribollente pentolone traboccante degli sguardi impietosi di chi dice che la musica nostrana fa schifo, di chi “parti Afterhours, finisci XFactor“, di “Iosonouncane meno male che esisti“, di “Niccolò Contessa ma quando ritorni“, di Vans, libri citati mai letti e film repostati mai visti che ogni venerdì rinfoltisce la sua schiera di capipopolo di cuori infranti con una nuova kermesse di offerte per tutti i gusti e i disgusti. Ecco, di questo calderone faccio parte come il sedano del soffritto, quindi non prendete come un j’accuse quello che avete letto finora: è solo un mea culpa consapevole ed autoironico – ridiamoci su! che una risata ci seppellirà , per fortuna, prima o poi – a preparare lo sfortunato lettore alla breve somma di vaneggi e presuntosi giudizi che darò qui di seguito, quando vi parlerò delle mie tre uscite preferite del weekend, e della mia delusione di questo venerdì. Sperando di non infastidire nessuno, o forse sì.
TOP
CAPAREZZA
Exuvia
Le parole sono tutto quello che abbiamo. Mattoncini di sillabe sdrucciole, piane e tronche che si sommano tra loro, impilandosi le une sulle altre in funambolici tetris linguistici utili a creare ponti sulle distese digitali delle nostre incomprensioni, rasentando l’afasia delle crepe che si aprono oltre muri di silenzio lasciando intravedere quel po’ di giardino dimesso che anche il custode più solerte non riesce a tener lontano dallo sguardo di chi sa domandare e ascoltare, senza la pretesa di un significato che sia l’ultimo, di una parola che non sia d’amore (ciao Giovannone Lindone!). L’introduzione poetica al limite dell’insensatezza (ma come direbbe Platone, la poesia altro non è che la mutua e improbabile convivenza di logos e tutto ciò che logos non è: insomma, me medesimo stesso tutto, con tutta la mia assenza di precise finalità – se non disturbare cerebralmente il vostro e il mio venerdì) era necessaria per lasciarvi intendere quanto il ritorno di Caparezza, oggi, sia vitale al limite della rieducazione, o quanto meno, della dimostrazione pratica, per contrasto, del nostro stato di pubblico sedato e ben deciso ad accontentarci delle briciole di senso che il panorama offre. Sarebbe bello poter disporre di un parolometro, o meglio, di un contenutometro utile a tenere il conto del numero di parole spese fin qui e del numero di contenuti espressi dalla musica italiana, in questi primi quattro mesi dell’anno; se poi, retrospettivamente, gettassimo l’occhio da ragionieri all’anno appena passato, sono sicuro che il conteggio finale risulterebbe ancora più impietoso agli occhi di chi, come me, è cresciuto male, abituato a valori che oggi sono disvalori e ad una ricerca di dialogo (che non sia ridotto a suoni gutturali e onomatopee tribali che no, non hanno niente a che fare col futurismo e l’avanguardia) che pare impigliata nelle reti fitte e infinitamente stringenti di una comunicazione sempre più formale, vuota e rumorosa. Al netto di chi, per sentirsi rivoluzionario, in questi ultimi mesi cerca di cambiare la lingua (come se questo bastasse a cambiare le teste marce) senza mutare linguaggio, Caparezza sembra essere intenzionato a dimostrare come si possa cambiare linguaggio senza spostarsi di una virgola rispetto ad una ricerca poetica di contenuto che non sa sedersi su retoriche di moda e costume, utilizzando le stesse parole ma rigenerandole e ricostruendole al fine di offrire nuovi punti di vista sul panorama variopinto di una personalità artistica in continua evoluzione – sì, ma senza per questo venir meno alla propria onestà intellettuale. Dalla babele virtuosa di “Exuvia” esplode il dolore e la rabbia (propositiva) di un uomo – prima ancora che di un artista – intenzionato a non smettere di mettersi in discussione senza tradire la propria storia e le proprie radici: nel calco esoscheletrico (ho scoperto oggi il significato di una nuova parola, exuvia, e d’ora in poi la vedrete ovunque nelle mie recensioni) del proprio passato Caparezza individua il senso della trasformazione, ricordando a tutti che conoscere ciò che è stato risulta fondamentale per riuscire a dire qualcosa che valga anche domani, o il prossimo venerdì. A chi si sente in dovere di cambiare le vocali finali di parole che suonano “sessiste” solo ai sessista inconfessati, Caparezza ricorda che non esistono più alibi utili a coprire le spalle di chi, nell’abuso delle terminologie e delle qualifiche che tanto attanaglia noi giovani e incauti recensori quanto la pletora di nuovi artisti che s’immolano ogni fine settimana alla messa del mercato, crede di far poesia (e magari politica) e altro non fa che meschina, populista e ingombrante retorica. E’ la militanza che risemantizza il linguaggio, e non viceversa: prima di cambiare l’italiano, forse sarebbe meglio cambiare gli italiani. Disoccupate le strade dai sogni, che c’è bisogno di gente sveglia per combattere la resistenza culturale del nostro tempo: siamo in guerra, e anche se ci illudiamo di poterci credere “‘assolti’ da tale incombenza generazionale, siamo tutti più che coinvolti.
VASCO BRONDI
Chitarra nera
Come si può parlare di Vasco Brondi più di quanto non abbiano già fatto altri, più di quanto non abbia già fatto lo stesso Vasco Brondi nell’epopea poetica che dai tempi de Le Luci accompagna la mitopoiesi di quello che, agli occhi di tanti – e di tutti da questo venerdì -, appare sempre più come il simulacro trasparente di un eroe tragico ben deciso a perdere tutto il suo eroismo, concentrandosi solo sulla propria devastante tragedia di uomo? Sarebbe meglio non parlarne, di Brondi. Ci sono cose che non necessitano di specchietti per allodole, anzi, che rifuggono le luci della ribalta per poter masochisticamente godere della salvifica incompatibilità con un presente asfissiante, ingenuo e tremendo, complicatamente fiero della propria irriducibile tendenza alla semplificazione; però, allo stesso tempo, parlarne è necessario perchè la Storia ha bisogno non solo di accadere, ma anche di essere raccontata. Certo, nessun racconto di Brondi potrebbe rendere efficacemente l’esperienza che solo ascoltare Brondi, oggi, può restituire all’ascoltatore: le parafrasi delle poesie altro non sono che la loro digestione scolastica, e se Leopardi sapesse di essere stato incastrato più nei giudizi dei critici che nella purezza primigenia (e quindi, per questo, insondabile) delle sue intuizioni poetiche, credo si incazzerebbe e non poco. Ai poeti vivi (e levatevi quella faccia imbarazzata, a leggere i miei solo apparentemente funambolici accostamenti: non fate come le nottole di Minerva, che il tempo fugge e non possiamo sempre e solo arrenderci alla rincorsa) cerchiamo di lasciare la possibilità di esprimersi a modo proprio, senza dover escatologicamente interpretare il senso di parole che possiedono, appunto, senso solo nel contesto in cui si trovano, e non nelle recensioni dei pennivendoli di turno – come il sottoscritto. Insomma, avrete capito che questa non vuole nè può essere una recensione dell’ultimo (primo) brano del nuovo (vecchio) Brondi, quanto un invito all’esperienza di un ascolto diverso, che necessita di attenzione e di solitudine: liberarsi dalle convinzioni, dalle pose e dalle posizioni, riscoprire la gioia di non voler (ne poter) capire tutto, impegnandosi però a comprendere quanto si può. E’ passato del tempo, dall’ultimo sussulto musicale di Brondi (escluso un suo featuring recente, che a dir la verità non avevo troppo apprezzato); c’era chi dava per “esaurita” la vena creativa del profeta degli anni zero, solo perchè non se ne sentiva parlare da un po’. Ora, citando (senza parafrasi alcuna) uno dei più grandi, Brondi sembra volerci dire che la morte non sta nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi. Non lasciamo morire Brondi. Impegniamoci ad essere meno semplici e prevedibili di così. Mollate questa introduzione pedante e moralista, e ascoltatevi “Chitarra nera”. C’è del petrolio, dentro, tanto. Con buona, buonissima pace del grande Pier Paolo.
COLOMBRE
Il sole non aspetta
Ritorna alle origini, il buon Giovanni. Dopo il secondo disco (che si sa, è sempre il più difficile), Colombre rispolvera le sonorità del fulminante album d’esordio, ricalibrando il baricentro su modalità di pensare la musica più vicine – vien da pensare – alla natura “esterofila” della sua preparazione artistica che a quel cantautorato duro e puro che, per quanto di altissima fattura come ascoltato in “Corallo“, pare essere più in linea con il gusto di Maria Antonietta (mica un nome qualsiasi, sia ben chiaro”…) che con quello a cui Mister Imparato ci aveva aizzato all’adorazione di “Pulviscoli“. Ogni percorso presuppone una minima coordinazione tra piede destro e piede sinistro, e non esiste passo verso il futuro che non implichi il corretto posizionamento dell’antecedente; “Corallo” è un disco pregevole, che risulta oggi ancor più prezioso per inquadrare l’evoluzione stilistica di un Colombre che ritorna sì a casa, ma arricchito dall’esperienza dell’altro da sè: attraverso lo sguardo retrospettivo al passato, emerge tutta la forza propulsiva di “Il sole non aspetta”, brano denso di immagini poetiche (che forse, con questa qualità e fattura, mancavano nel disco d’esordio) capace di far collimare tra loro l’attitudine autorale di Colombre e la sua necessità di sonorità lontane e – come direbbe Stanis – deliziosamente poco italiane, nel recupero di quella sensazione di epochè, di sospensione atarassica del giudizio che sembrava esser venuta meno nel piglio deciso (a livello testuale e poetico) e definitorio dei (comunque) preziosi testi di “Corallo“. Insomma, un (altro) nuovo inizio che riporta Colombre ai nastri di partenza, con un bagaglio esperienziale più leggero (proprio perchè più pesante) che saprà dare alla sua corsa su se stesso il fiato necessario a spingersi verso orizzonti sempre più lontani e luminosi. Perchè ne abbiamo bisogno, tutti, eccome.
TOP BONUS
CIMINI, Pubblicità (album)
Niente flop (non piangete, dai! Non posso mica incavolarmi a salve, lo faccio già nel mio quotidiano”…), ma uno stringato commento utile a restituire Cimini allo spazio che più gli si addice – quello dei top. “Pubblicità “, il suo nuovo album a metà tra Rino Gaetano e Vasco Rossi per Garrincha, ha già lasciato tracce illustri e indizi decisivi sul suo arrivo nei miei vari bollettini del venerdì e oggi esimermi dal consigliarvelo in virtù della massa mastodontica di uscite interessanti del weekend sembrava un insulto alla mia onesta intellettuale e alla mia coerenza pseudo-giornalistica. Cantautorato di qualità disseminato in otto tracce che sanno di auto-riflessione capace di contagiare per ispirazione e sincerità anche l’ascoltatore più restio all’autocritica. Musica utile, oltre che ben fatta. Insomma, non è un FLOP, è vero, ma un TOP BONUS utile ad aiutare il vostro weekend. Promesso.
SEZIONE VIVAIO
Di fronte al nuovo che avanza ritrarci non è più possibile, se non assumendocene le pesanti responsabilità generazionali; ecco perchè abbiamo bisogno oggi di dedicarci ai polmoni di domani, che hanno bisogno di ossigeno e di speranza. Nasce per questo la “Sezione Vivaio”, con le nostre segnalazioni dei più interessanti emergenti di giornata: solo i migliori fiori che la gioventù, come direbbe Fossati, fa ancora crescere per le strade.
CANARIE, Brodo
Mamma mia, come vi amo Canarie. Seguo il progetto dagli esordi (che gioia poterlo dire), e ad ogni nuova uscita impazzisco di fiducia nei confronti dell’umano; che cose grandi, che cose belle che siamo in grado di fare, con idee e preparazione! E allora perchè, ogni venerdì, finiamo con l’accontentarci delle puree da playlist? Per i nostri stomaci al collasso, un buon “Brodo” sembra allora essere la ricetta giusta per sciogliere le riserve sulla necessità di nuove diete musicali: Concato, la dance quella bella, echi di Alan Sorrenti e ottima capacità di scrittura sembrano essere gli ingredienti necessari per una miscela esplosiva come quella di Canarie, che ad ogni nuovo singolo mi fanno perdere un paio di chili di rancore nei confronti della scena italiana. Santi numi, che venerdì!
NUBE, come un film di wes
Nube non è una nuvola passeggera, per niente. Alzando gli occhi al cielo, lo potete vedere anche voi: c’è aria di tempesta, e dalle nuvole gonfie del release friday piove giù deciso “come un film di wes”, esordio (tutto al minuscolo, ma nei risulti al maiuscolo) della nuova scommessa di Revubs Dischi: piglio alla Galeffi ma sguardo verso oltralpe, nel tentativo di rigenerare un codice – quello dell’itpop – che sembra ormai essere arrivato ad esaurimento scorte. Il testo e le melodie aiutano la color correction di un genere che, oggi più che mai, necessita di ricalibrarsi, aggiornandosi. Ottima partenza, aspettiamo conferme.
ELEONORA ELETTRA, Ora che non ho
Eleonora Elettra fa ancora le cose alla vecchia maniera, eppure è giovanissima: voce a metà tra soul e R&B, sonorità vintage (ma con gusto) che aiutano a ritrovare quel poco di sincerità che oggi sembra essere cura e balsamo per ogni tipo di ascoltatore. “Ora che non ho” è una ballad energica, che ruota attorno al dialogo serrato tra la voce (che si fregia, tra l’altro, di un testo niente male) e l’apparato strumentale del brano, guidato dalla chitarra di Luca Arduini (co-produttore, insieme ad Eleonora, del nuovo singolo della riminese per Luppolo Dischi). Un’iniezione di ottimismo che aiuta a svalicare con entusiasmo la deriva del weekend.
RICKY FERRANTI, Non farmi la guerra
Ottimo sound sospeso (e reso quindi concreto) tra folk e blues quello di “Non farmi la guerra”, il nuovo singolo di Ricky Ferranti; nel finger-picking del cantautore, emerge chiaramente il rimando ad una certa scena d’oltreoceano che trova i suoi antecedenti storici italiani nei principali esponenti della canzone d’autore, da De Gregori a Guccini, passando per certe sonorità etniche e world che a tratti ricordano gli Area di “Gioia e rivoluzione”. E di gioia rivoluzionaria, in un brano sincero pensato per piacere all’autore prima che ad una qualsivoglia idea di pubblico generalista, ce n’è davvero un sacco.
RAGAZZINO, La colpa è tutta tua
Buon ritorno anche per Ragazzino, che intelaia in “La colpa è tutta tua” un discorso a sè stesso che sa di tentativo di ricostruzione su sè stesso, nello slancio propositivo di chi non ha smesso di credere possibile il “costruire su macerie” di gucciniana memoria. Echi di pop vecchia scuola (c’è del Mengoni, in questo Ragazzino!) Si beano dello spessore aurorale di una penna capace, in via di definizione ma ben decisa nel mostrare a tutti la stoffa del proprio germinale talento.
BLUEM, Martedì
Bluem è una delle mie scommesse per il 2021; “Lunedì”, qualche lunedì fa, aveva arricchito ed ispirato il mio venerdì bollettinante, attraverso atmosfere deliziosamente cupe (ai limiti del gothic) che sembravano ben intenzionate a sfuggire ad ogni tipo di riduttiva classificazione stilistica. Quello stile di scrittura a metà tra la trance e il peana è lo stesso di “Martedì”, che rispetto al fratello maggiore presenta una definizione sonora più smaccata, indebolendo forse un pochino l’atmosfera onirica dell’esordio ma guadagnandone in pulizia e trattamento del suono: l’ispirazione genuina dell’artista sarda traspare con la solita veemenza, perdendo in “maleducazione” ma acquistando credibilità agli occhi di un mercato sempre più interessato alla forma. Il contenuto, ovviamente, continua ad esserci, concretizzandosi in una scrittura identitaria che conferma Bluem tra i nomi su cui puntare per quest’anno.
TAMI’, Primo ottobre (album)
Ottimo lavoro quello di Tamì, che riprende nel suo personalissimo “Primo Ottobre” quel sound definito dalle produzioni delle nuove leve aurorali, da Psicologi ad Ariete. C’è tutta la ricerca di spazio espressivo e vitale di una generazione in cerca d’identità , nel disco d’esordio di Tamì: otto tracce tra itpop e pop rap, con un giusto utilizzo degli autotune e una scrittura non banale che trova, a mio parere, la sua più intensa declinazione proprio nell’ultima traccia del disco con echi di Einaudi ed Allevi (chi l’avrebbe mai detto, eh?). Un buonissimo punto di partenza per una crescita personale che, se urgente e sincera, porterà presto a conferme.
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