Tutti pazzi per i Dry Cleaning, volendo parafrasare il titolo di un celebre film, ancorchè non vi è nulla di comico o ironico a scandire le gesta dell’esordio dei quattro londinesi ma qualcosa a tratti irriverente proveniente dallo spokenword della talantuosa scrittrice e frontwoman, Florence Shaw.
Pollice in su ovunque e, da più parti, inserito sul podio dei dischi dell’anno benchè manchi ancora un po’ alla fine del primo semestre del 2021. Di sicuro è uno dei debutti più attesi dell’anno, figlio del susseguirsi delle lodi ottenute per i due ottimi EP usciti nel 2019, “Sweet Princess” e “Boundary Road Snacks And Drinks”.
Insomma, ci troviamo di fronte ad una “vittoria” scontata quanto annunciata per il quartetto – composto oltre che dalla già citata Shaw, anche da Lewis Maynard al basso, Tom Dowse alla chitarra, e Nick Buxton alla batteria (con i quali abbiamo scambiato due chiacchiere) – il quale ha optato per l’ambientazione che sorvola, nientepopodimeno, le sature ed immense distese del post-punk qui, tuttavia, col l’intento di coniugare il giusto equilibrio tra un sound ben noto con una sorta di sciccheria, signorilità che vuole trasparire insistentemente dai dieci episodi.
Ma veniamo al dunque…; successo ed elogi meritati? Certo che si, difficile negarlo anche per i profani del genere. Tuttavia, a parere del sottoscritto, manca più di qualche tassello per erigerlo a quel capolavoro da più parti decantato. Sono presenti brani davvero incredibili come l’opener “joydivisiana” “Scratchcard Lanyard” o la “waveiana” title track che sono davvero delle perle, ma anche “John Wick” – una delle migliori del long-playing – dove riff di chitarra si adagiano su una linea di basso “spaziale”.
Registrato la scorsa estate presso i Rockfield Studios nel Galles con la regia del produttore John Parish (PJ Harvey, Aldous Harding), il sound tracciato dai britannici in questo” New Long Leg” riesce solo in parte, però, a distogliere l’attenzione dall’ottimo e citato spokenword della Shaw che, complice una profonda quanto a volte divertente narrazione – si parla di amore, ansie, rabbia ma anche brexit e hot dog – avoca a sè, appunto, tutta l’atmosfera che viene fuori dai brani, il più delle volte con grande rammarico come accade, ad esempio, nella seducente “Strong Feelings” dove pulsa un corposo basso oppure nelle note con echi “smithiani” presenti in alcune distorsioni di “Her Hippo”. Discorso a parte merita, invece, l’efficace melodia di “More Big Birds”, che si avvicina di più alla forma canzone propriamente intesa.
Probabilmente è proprio qui che l’album manca di slancio, proprio in quel filo conduttore fin troppo impostato sul “parlato” imperturbabile ed ipnotico della Shaw. Sia ben chiaro, il disco scorre via nei suoi quaranta e passa minuti, anche nel finale seventies con la closing track a tinte krautrock/avantgarde di “Every Day Carry”, che ha il compito di chiudere, in poco più di sette minuti, un debutto di assoluto impatto nonchè ambizioso e che, a volte, non manca di originalità .
Photo credit: Steve Gullick