di Riccardo Cavrioli e Manuel Apice
E’ con grande piacere che oggi presentiamo, in anteprima, il nuovo video di Ettore Giuradei, relativo al brano “Ferire Il Cuore”, contenuto sull’album “Lucertola”, uscito il 25 ottobre scorso per Casa Molloy/Freecom/UMA Records. Del disco appena citato ci piace citare il suo spirito “live”, arricchito da una produzione che riporta alle atmosfere del Bowie mitteleuropeo di “Low” e del Badalamenti di “Twin Peaks”, capace di esaltare il songwriting caratteristico e unico di Ettore.
A gennaio era uscito il video in cui Ettore, per le vie di New Orleans, proponeva “Stupito”.
L’uscita del nuovo video ci ha dato lo spunto per fare una chiacchierata, sempre molto gradita, con il buon Ettore…
Bentrovato, Ettore. Partiamo da dove ti avevamo lasciato: gennaio 2021, in piena pandemia (seconda, terza, quarta o chissà quale “ondata”) ti avevamo visto sfilare in una parata di resistenza culturale ed emotiva per le vie di New Orleans, cantando “Stupito”. L’incertezza delle cose, nel frattempo, sembra essersi fatta ancor più “incerta”. Tu, nel tuo calice, che verità senti di aver scoperto, ad oggi?
Mi piacerebbe accennarti ad una verità che scorgo oggi e cioè la dimostrazione che non si può trovare una soluzione immediatamente. E, di conseguenza, la nostra incapacità a vivere un momento incerto, di passaggio, in cui si deve ricercare con pazienza un adeguamento. è tremendo, veramente, percepire questa disabitudine all’attesa; l’incapacità di rielaborare e metabolizzare un evento così devastante; non riuscire a presupporre che ci debba essere un percorso, anche lungo, per arrivare ad una soluzione.
Ma tra l’altro, che ci facevi in America? Cosa ti ha lasciato quel viaggio che, di per sè, sembra essere già carico di un fascino ancestrale che dal jazz si ricollega alle migliori menti della generazione beat, attraverso la via del Mississippi e della Route 66?
Viaggio esplorativo. Per una serie di coincidenze sono riuscito a partire. Il volo più economico m’ha fatto arrivare a Miami e da lì mi sono spostato prima a Nashville e poi a New Orleans. Un mese e mezzo da solo senza sapere bene l’inglese e senza smartphone: bello, intenso. Quello che mi interessava di più era vedere con i miei occhi il paese che nel bene e nel male c’ha colonizzato culturalmente. Forse la cosa più interessante è stato ordinare una sorta di puzzle artistico che avevo in testa e che ho scoperto ricondursi a quell’area degli Stati Uniti, comprendendo più precisamente, anche Texas e in qualche modo la California. Ecco i tasselli del mio trip musicale/cinematografico: Micah P. Hinson all’Ohibò di Milano, Gianfranco Rosi/Below sea level, Roberto Minervini, Fiona Apple/Fetch The Bolt Cutters, Vinicio Capossela/Gianfranco Firiolo/La faccia della terra, Joni Mitchell/Shine, Francesco Guccini e, Ani Di Franco che da New Orleans ha lanciato Do or Die.
Quindi, oggi, il videoclip di “Ferire il cuore”, brano-manifesto di “Lucertola”, tuo quarto album in studio pubblicato ad ottobre scorso. L’intero disco, in qualche modo, sembrava essere stato pensato per restituire all’ascoltatore un calore umano più vero e deliziosamente “suonato”: nessuna indicazione precisa data ai musicisti coinvolti nella ricerca di un’immanenza genuina, svincolata da ogni possibilità di contraffare l’ “hic et nunc” di un progetto musicale sì, ma dall’alto quoziente di performatività nella produzione di un senso che scaturisse dal dialogo fra le parti. In effetti, anche il video sembra ricercare la stessa possibilità di dialogo visionario (più che visivo) con lo spettatore, avvicinandosi ad un gusto che ricorda lo sperimentalismo di un cinema diverso, quasi pasoliniano, piuttosto che la ricerca di un prodotto destinato alle teche dei video musicali da MTV. Ma come nasce l’urgenza di una simile ricerca?
Nasce dalla discussione sul senso dell’arte, della musica, del bisogno di esprimersi e di divulgare le proprie sperimentazioni. Mi chiedo se sia veramente tutto così necessario?
Visto che da ascoltatore, da spettatore, spesso non sento questa urgenza. Avevo bisogno di riattivarmi. Ho voluto sfruttare l’unico spiraglio che avevo e mi son lanciato ad occhi chiusi in un processo molto istintivo costruito su un “semplicissimo” rapporto di fiducia con le persone che ho voluto coinvolgere. Fermare il giudizio, per lasciare che lo stimolo lanciato potesse far nascere un riflesso più libero e spontaneo possibile. In quest’ottica ho iniziato questo percorso con la realizzazione di “Lucertola”, coinvolgendo e lasciando carta bianca a Giacomo Papetti e Fidel Fogaroli ma anche a Paolo Blodio Fappani che ha impreziosito la produzione artistica, e, continuando e finendo con i video di Sara, in cui, di fatto, la mia partecipazione è stata sempre meno “invadente”.
Il videoclip diretto da Sara Barozzi si articola in un montaggio volto a destabilizzare lo spettatore – o almeno, così pare a primo impatto – attraverso una scelta di immagini che mescolano la carne con il cielo, in un peana che si fa doloroso inno alla vita, urlo di una “disperata vitalità ” che si alza da viscere e intestini. Prima di tutto, vorrei chiederti se, anche in minima parte, l’intuizione fosse corretta; poi, mi piacerebbe approfondire con te il
discorso in merito al modo in cui oggi, anche al netto di ciò che ci ha circondato (e continua a circondarci) nell’ultimo anno, ti relazioni con il pensiero della morte, che in qualche modo risulta tema ricorrente della tua discografia, seppur affrontato con sfumature di senso sempre diversificate e varie. Dovremmo chiedere a Sara ma credo che l’intuizione sia corretta. Quando Sara m’ha detto che aveva in mente questa immagine del cuore/organo raffigurato in tutta la sua “crudeltà ” e quando m’ha accennato a questa presenza/ombra che finiva per mangiare il cuore, ispirata a Nosferatu il vampiro, ho sentito le vibrazioni giuste. Ho pensato che, anche per chi mi segue, fosse utile tornare ad immergerci in qualcosa di inquieto e spaventoso che è il sotto strato della nostra esistenza. Soprattutto dopo il video live da New Orleans in cui avevo voluto cercare un po’ di sana spensieratezza. Per quanto riguarda il tema della morte, proprio in questo momento morente, mi sento ultra vivo, non solo artisticamente, proprio”…non avrei voglia di morire. Sto comunque indagando il tragico, la nascita della tragedia, ma soprattutto mi piacerebbe indagare il “pre-tragico” della mitologia mediterranea.
Contro l’artefatto “buongusto” di oggi, teso ad anestetizzare ogni forma di dolore decantando un “bello” che si fa sempre più glaciale e prossimo al “rigor mortis” di una contemplazione estatica e sempre più “disimpegnata” dalla vita, ad ogni nuovo step tu proponi all’ascoltatore una vera e propria via crucis che quasi spaventa, per forza d’urto ed impatto. Oggi “disturbare” sembra essere l’unica forma possibile di riattivazione del pubblico. Ma esiste qualcosa, secondo te, che ancora ci riesce davvero a sconvolgere, e in un certo senso, sì, a disturbarci davvero? Alla fine, sembriamo essere davvero anestetizzati, sì, ma in un coma che a volte pare essere ormai irreversibile.
Condivido pienamente: il coma è profondo e irreversibile. Difatti credo che sia il momento più adatto per seguire i propri impulsi, i propri stimoli, sempre con determinazione e costanza, e senza fasciarsi la testa. Almeno io la sto vivendo così. Comunque sia, quel livello di medio alto nuovo indie mainstream non mi coinvolge e non mi affascina anzi continuo a sentirlo come un adeguamento all’avanspettacolo piuttosto che un vertiginoso cambio di rotta, pericoloso, interessante, in cui scorgere un imprevisto in qualche modo sconvolgente. Quindi se qualcosa di sconvolgente dobbiamo trovare, val la pena cercare nelle tante piccole e sconosciute resistenze artistiche e musicali sopravvissute; nei libri di 50, 60, 70 anni fa e nelle ancora ineguagliabili meraviglie della natura.
Ettore, l’estate è vicina. I tuoi progetti saranno sicuramente – quando si potrà – tornare live: ad oggi, quali sono le sensazioni per il futuro immediato? Esiste un personale “piano Giuradei” per poter impattare, in ogni caso, al precipitare degli eventi?
Come ti ho detto ho ancora un po’ di sogni. Credo riuscirò a fare qualche concerto in solo quest’estate, girando per l’ennesima volta questa bella e maltrattata Italia, sorprendentemente piena di avamposti culturali pronti a combattere un livellamento inesorabile. Qualcosa dovrei riuscire a fare anche in band/quartetto, con l’ingresso in
formazione di Vincenzo Albini al violino. Tutto questo grazie anche a Vox Concerti. E poi ho voglia di buttarmi in un nuovo disco, ho tutte le canzoni e mi vorrei godere un periodo lungo di gestazione, di produzione e di sperimentazione.
Credit Foto: Margherita Maniscalco