I Pearl Jam nel 2006 decidono di pubblicare un disco dal titolo omonimo, è l’ottavo album in studio per la band di Seattle.
“Pearl Jam” è un disco che non ho mai apprezzato particolarmente, e vi spiego perchè.
I Pearl Jam tra le band che a Seattle tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 danno vita a una scena hard rock etichettata come grunge, è una di quelle che più sposa un suono caldo e pastoso, che più è abile e capace di creare atmosfere uniche grazie anche alla inconfondibile voce del proprio leader Eddie Vedder. I Pearl Jam negli anni hanno lavorato su queste caratteristiche peculiari che definiscono la loro cifra stilistica, che li rendono unici fino a farli spiccare all’interno del murales di Seattle.
I Pearl Jam che si affacciano sul nuovo millennio lo fanno con due album piuttosto ravvicinati, “Binaural” del 2000 e “Riot Act” del 2002, due progetti che portano la compagine a sperimentare un po’ oltre i confini, andando a esplorare territori dalle tinte più orientali con anche ricerche vocali interessanti condotte da Vedder.
L’album successivo, l’omonimo addirittura “Pearl Jam” del 2006, è un disco che perde tutta quell’atmosfera tipica della band, eccettuate pochissime canzoni come “Parachutes” e “Gone” che fanno respirare ancora l’aria a cui eravamo abituati, che ci fanno sentire a casa.
Il DNA dei Pearl Jam in “Pearl Jam” è difficile da rintracciare, e pensare che un album omonimo dovrebbe essere il manifesto di un progetto musicale, e se arriva dopo 15 anni di carriera e una fama del genere”… le aspettative devono essere rispettate. Non è stato così.
“Pearl Jam” è un disco tirato dove Eddie Vedder canta come Cornell senza essere Cornell e McCready ci dà dentro con assoli tamarri dentro una scatola di latta pacchiana prodotta da Adam Kasper. Un disco mainstream molto americano e molto popolare, in definitiva poco verace nella sua finta irruenza che voleva essere un “ritorno alle origini senza fronzoli”, ma che invece si rivela un deludente tentativo di accontentare una fetta più grande di pubblico.
Triste constatare che sia stata una scelta commerciale quella di virare su sonorità più orecchiabili al largo bacino di utenza del rock americano, soprattutto dopo le “deludenti” vendite (mezzo milione di copie) di “Riot Act”, album che invero ha molto più valore di questo seguito banale e velleitario.
Intendiamoci, sono sempre i Pearl Jam, un disco come l’omonimo del 2006 che oggi compie 15 anni è un album che se dovessi recensire riceverebbe comunque una sufficienza. Alcuni brani sono molto buoni, ma è “l’impacchettamento”, la vena utilitaristica che si cela dietro le 13 tracce di “Pearl Jam” che mi fa storcere il naso e in alcuni spunti anche accapponare la pelle.
“Pearl Jam” non è un bel disco per i Pearl Jam, e soprattutto non lo è per i propri fan (anche se molti di loro hanno apprezzato), un ascolto oggi può però sicuramente raccontarci ancora molto di loro e di noi stessi, nel bene e nel male.
Data di pubblicazione: 2 maggio 2006
Durata: 49:45
Tracce: 13
Genere: Hard Rock, Post Grunge
Produttore: Adam Kasper
Etichetta: J Records
Tracklist:
1. Life Wasted
2.World Wide Suicide
3. Comatose
4. Severed Hand
5. Marker In The Sand
6. Parachutes
7. Unemployable
8. Big Wave
9. Gone
10. Wasted Reprise
11. Army Reserve
12. Come Back
13. Inside Job