Finalmente, a distanza di quasi cinque anni dalla morte, sono stati aperti gli archivi che custodiscono le preziose e abbondanti registrazioni inedite di Alan Vega. Gli otto brani di “Mutator”, il primo album postumo del cantante dei Suicide, sono nati tra il 1995 e il 1996 nel suo studio privato di New York. Stando ai piani originali, il lavoro sarebbe dovuto arrivare nei negozi già all’epoca. Il desiderio di passare velocemente ad altri progetti portò però a una progressiva perdita di interesse in queste canzoni; una volta chiuse nel cassetto, sono rimaste a fare la muffa come fossero meri scarti di cui sbarazzarsi.
A salvarle dall’oblio ci ha pensato la moglie e collaboratrice Liz Lamere, cui va il merito di aver recuperato, rifinito e mixato (insieme al produttore Jared Artaud) l’opera dimenticata. Un ruolo davvero fondamentale il suo, visto che tutti gli strumenti del disco sono stati suonati proprio da lei. Le melodie fumose e i riff scheletrici che hanno preso forma sono poi stati pesantemente manipolati da un Alan Vega più che mai salmodiante, psichedelico e visionario.
L’obiettivo della coppia? Dar vita a un sound elettronico che fosse in grado di replicare i rumori delle affollatissime e caotiche strade newyorchesi. E difatti la musica di “Mutator” riesce a imitare davvero bene il ritmo frenetico, la confusione disumana e l’indistinto grigiore che caratterizza le metropoli più sviluppate, disseminate da palazzoni talmente ingombranti da impedire ai cittadini di godere del benchè minimo spiraglio di luce naturale.
La Grande Mela di Vega ricorda in maniera impressionante le periferie sterminate e i panorami industriali raccontati da William Gibson nella sua Trilogia dello Sprawl: un inferno cyberpunk dominato da atmosfere notturne (“Fist”, “Nike Soldier”), rifiuti digitali (“Filthy”), dissolvenze spettrali (“Psalm 68”, “Breathe”) e incubi deformi (le terrifiche e angoscianti “Trinity” e “Muscles”).
Dimenticatevi la vivacità di un classico anni ’80 alla “Saturn Strip”: il synth-pop sperimentale e venato di industrial di “Mutator” è incredibilmente lugubre e deprimente, intriso di morte fino al midollo. Considerando il fatto che stiamo parlando di un album postumo, si tratta di un complimento; questo disco è così oscuro e tetro che potrebbe benissimo essere stato registrato da un Alan Vega già perso nel regno delle anime.
Se non avete paura delle tenebre, non potrete far altro che restare affascinati da un lavoro così particolare e complesso. Se invece non siete ancora pronti per varcare i cancelli dell’oltretomba, accontentatevi dello strano bagliore spirituale di “Samurai”.