Quasi quattro anni fa, nel recensire “How Did We Get So Dark?” dei Royal Blood, chiusi il pezzo scrivendo che senza uno scossone stilistico il duo di Brighton avrebbe corso il serio rischio di non crescere mai, restando aggrappato alla formula vincente ma non particolarmente originale dell’esordio datato 2014. Oggi, dopo aver ascoltato più e più volte le undici tracce del nuovo “Typhoons”, posso dire con certezza che il tanto necessario cambio di rotta c’è stato. E con quali risultati? Non eccessivamente entusiasmanti, purtroppo.

L’impressione generale è che Mike Kerr e Ben Thatcher abbiano voluto apportare modifiche sostanziali al proprio sound non tanto per allontanarsi dai modelli di riferimento (Queens Of The Stone Age in primis), quanto per “smussare gli angoli” e tentare l’assalto finale alle classifiche di tutto il mondo. Ve la farò breve: “Typhoons” è un disco dal potenziale commerciale stratosferico. Alla vecchia miscela a base di sonorità  hard, riffoni stoner e granelli pop si aggiungono massicce dosi di ruffianissimo, pompatissimo ed estremamente radio-friendly dance rock.

Costruire un muro di groove ispirandosi alle lezioni di Daft Punk, Cassius e Justice; la terza fatica in studio dei Royal Blood flirta in maniera pesante con l’elettronica senza però mai abbracciarla davvero, visto che tutto (o quasi) continua a passare dalle corde del basso di Kerr e dalle pelli della batteria di Thatcher. L’obiettivo è quello di farci ballare e, al tempo stesso, mantenere viva la fiamma di un rock che però sembra ormai essersi irrimediabilmente “plastificato”.

Manca la genuinità  dei primi due lavori: i suoni super-sintetici e gli arrangiamenti troppo ricchi riducono in maniera considerevole la grinta che timidamente affiora dai riff comunque accattivanti di “Trouble’s Coming”, “Typhoons”, “Who Needs Friends” e “Boilermaker”. Quest’ultima è stata prodotta nientepopodimeno che da Josh Homme ed è di gran lunga la canzone migliore dell’album: una piccola perla di funk deviato che, forse proprio grazie all’intervento dell’espertissimo cantante/chitarrista statunitense, evita la deriva modaiola delle sue compagne semplicemente conservando un briciolo di naturalezza da dimensione live.

Se cercate un disco capace di farvi divertire e muovere le chiappe, di certo non resterete delusi da questi quaranta minuti di puro intrattenimento in salsa pop rock. Ma non chiedete di più agli stilosissimi Royal Blood del 2021: un profluvio di falsetti, hook appiccicosi e ritornelli faciloni che vorrebbero citare Soulwax e Millionaire ma finiscono sempre col ricordare i Muse di “Supermassive Black Hole”.