è di nuovo venerdì e seguendo la traiettoria del volo di un moscone – dal ronzio più emozionante di tante cose sentite ultimamente – ho percepito l’esigenza, da parte dell’Universo, di sapere (anche) la mia sulle ultime pubblicazioni musicali del Belpaese; è per questo che, signore e signori, ho deciso di comunicare urbi et orbi il mio bollettino del giorno sulle nuove uscite del pop italiano. Sì, quel tragico, ribollente pentolone traboccante degli sguardi impietosi di chi dice che la musica nostrana fa schifo, di chi “parti Afterhours, finisci XFactor“, di “Iosonouncane meno male che esisti“, di “Niccolò Contessa ma quando ritorni“, di Vans, libri citati mai letti e film repostati mai visti che ogni venerdì rinfoltisce la sua schiera di capipopolo di cuori infranti con una nuova kermesse di offerte per tutti i gusti e i disgusti. Ecco, di questo calderone faccio parte come il sedano del soffritto, quindi non prendete come un j’accuse quello che avete letto finora: è solo un mea culpa consapevole ed autoironico – ridiamoci su! che una risata ci seppellirà , per fortuna, prima o poi – a preparare lo sfortunato lettore alla breve somma di vaneggi e presuntosi giudizi che darò qui di seguito, quando vi parlerò delle mie tre uscite preferite del weekend, e della mia delusione di questo venerdì. Sperando di non infastidire nessuno, o forse sì.
TOP
DIODATO
L’uomo dietro il campione
Sono solito a facili sentimentalismi, lo dico subito; soprattutto quando si incontrano e s’intrecciano, prendendosi per mano, le mie due grandi passioni. Pane e circensi, musica e calcio che sfilano sul prato erboso della grande arena digitale di Spotify facendo un po’ gongolare chi come me è cresciuto con il mantra di Nino in testa, “lavorando sui polmoni” come Oriali perchè scarsamente dotato di piedi buoni e utili a prendere la rincorsa sulla vita; non è un calcio di rigore a definire il campione (e Baggio lo sa bene) ma la sua forza di lavorare i fianchi alle proprie paure, rialzandosi ad ogni caduta e facendosi carico di una comunità intera in disperato bisogno di eroi e di rivincite sociali. Nell’anno in cui la Superlega prova a creare lo stesso circuito chiuso che le lobby Spotify ci hanno ormai abituato a concepire come “normale” nei magheggi delle loro playlist dorate, Diodato – seppur al soldo del capitale, perchè Netflix questo è – tira fuori una canzone popolare che, come tutte le canzoni d’autore calcistiche, parla certo di Baggio ma in fondo si rivolge (e non senza qualche traccia di sano “populismo”) a quel “campioncino” che alberga nell’ego più sommerso di tutti, geni incompresi dalla vita e allenatori nel pallone disillusi da un esistere che talvolta – proprio come il calcio contemporaneo- di sportivo sembra non avere più nulla. Quella del calcio di rigore è una metafora topica oramai, e Diodato la ripropone oggi facendosi alfiere di quella “leva cantautorale della classe 2000” che per una vita è stata costretta alla panchina e che ora è decisa più che mai a prendersi un posto da titolare in campo; senza imitare lo stile di nessuno, ma rimanendo ben memore della storia di un pallone che negli anni è stato calciato da tanti campioni. Benvenuti, Oriali, Baggio; De Gregori, Ligabue, Diodato: storie che s’intrecciano e vite che si scambiano, inaspettati tridenti che segnano la linea d’evoluzione di una canzone d’autore che ha bisogno di nuove icone, ma sopratutto di tanto coraggio e fantasia, per tornare ai piani alti di una canzone che sembra ormai diventata la parata dei milioni (di streams o di moneta, non importa: tanto è tutto virtuale allo stesso modo) e il trionfo dei giornali. Un po’ come il calcio, un po’ come tutto.
PETER WHITE
Gibson rotte
Oh, gasa Peter White. Onesto, non l’ho mai ascoltato con troppa attenzione per quanto chiunque me ne parlasse bene – sono fatto così, adoro le occasioni perse; apparentemente troppo lontano (lui) dal mio range d’ascolti, troppo pigro (il sottoscritto) per sottoporre ad un perpetuo attentato le proprie abitudini musicali (come mi piace predicar bene e razzolare malissimo), troppa musica (in generale) da ascoltare ogni settimana per non perdonare (me lo dico da solo) le mie mancanze. Fatto sta che oggi “Gibson rotte” mi ha portato in un posto bello che non saprei definire ma sicuramente mi piace; l’identità del progetto, oltre che nella scelta delle immagini e in un sentore di “poetica” che comunque si lascia notare tra le trame solite di una produzione in linea con il mercato, sta nel timbro di Peter, baluardo irriducibile di un’originalità che dev’essere incoraggiata ad esplodere. Oggi, parlare di “canzone d’autore” sembra anacronistico o quanto meno complicato, vista la miriade di “cantautori” che la trasformazione del meccanismo di produzione discografica degli ultimi quindici anni (“dagli studi alle camerette”: il tragitto lungo il quale si è progressivamente spenta in demagogia e dilettantismo tutta la portata rivoluzionaria dell’indie primigenio) ha saputo produrre con uno stampino sempre più consumato; indubbio però che la “canzone d’autore” vada ricercata e individuata con nuovi mezzi e strumenti d’indagine critica che nessuno sembra più avere nè interessato ad acquisire (Club Tenco incluso, purtroppo). Perchè dico questo? Perchè Peter White, come altri, ha le carte giuste per allargare il concetto di “canzone d’autore” oltre lo stagno di nostalgismo in cui versa, comatoso, ormai da una ventina d’anni il cantautorato italiano e chi dovrebbe tutelarlo e difenderlo, in nome di un patrimonio importante che però richiede a gran voce di essere “rigenerato”; c’è un’identità forte in White, da preservare e tutelare dai clichè del genere e del suo tempo. Se ce la farà , tra qualche anno potremo finalmente tornare a parlare di Cantautori (sì, con la C maiuscola) senza pensare, automaticamente, a qualcosa (e qualcuno) che ormai sembra rivivere solo in serate a tema e schitarrate caciarone. Sì, mi sto auto-blastando.
MAHMOOD, DARDUST
Klan
Sono stato a lungo indeciso se inserire o meno il nuovo brano di Mahmood sul mio podio personale. La prima reazione all’ascolto di Klan, oggi, è stata “shock”; per un attimo, ho pensato che il talento oriundo del vincitore di Sanremo 2018 si fosse definitivamente arenato nel clichè di una produzione che, per quanto vincente (ma dal punto di vista tecnico, la fattura pregiata dei lavori di Dardust è più che una certezza), sembrava essersi spenta nel richiamo ad un mondo pseudo-trap che non appartiene nè a Mahmood nè al sottoscritto. Poi, ad un secondo e terzo e quarto ascolto ho capito (o almeno, credo di averlo fatto). Il fulcro, qui, è ovviamente il testo, elemento di rottura con la retorica del genere a cui, musicalmente, “Klan” richiama: contro il pacchiano e artefatto machismo superomistico e criminoide della trap italiana, Mahmood contrappone il pugno dell’ossimoro e della parodia carnevalesca; il Klan dell’artista è quello sentimentale e sincero di chi non ha bisogno di kalashnikov per sentirsi fuorilegge, in un mondo in cui gli agnelli hanno imparato a travestirsi da lupi per sentirsi meno indifesi e più aggressivi. “Klan” racconta, attraverso i modi della trap, un mondo sentimentale che vira in direzione ostinata e contrario contro lo stereotipo del genere, aprendo nell’ascoltatore un duplice piano d’ascolto che impone più di un ascolto per essere afferrato in pieno. Tutto questo con un piglio da “hit” che al solito viene naturale al talento da Re Mida di Mahmood.
FLOP
SAMUEL, FRANCESCA MICHIELIN
Cinema
Samuel è invecchiato, e qui la mia sentenza presuntuosa non è legata all’anagrafica (ci mancherebbe altro) ma al modo di approcciarsi alla musica che il frontman dei Subsonica sembra essersi auto-imposto negli ultimi anni. Invecchiato, sì, perchè tremendamente impaurito dalla possibilità di scomparire nella miriade di nuove proposte che ogni venerdì si affastellano sulla scena, come pastura omogenizzata utile a sfamare, giusto il tempo di una settimana, la bulimia disperata e psicotica dell’ascoltatore contemporaneo; è in questi frangenti difficili che i campioni – quale Samuel è – dovrebbero ricordarsi del proprio talento e della propria storia, che non merita di spegnersi in disperati e non necessari tentativi di “riabilitazione” ad un pubblico che pare più debilitato che mai. Insomma, l’atto rivoluzionario, oggi, non è più abbassare le pretese linguistiche per parlare al popolo, ma tentare una “rieducazione” alla complessità che passi attraverso brani degni del nome di autori esperti come Samuel; se i migliori si edulcorano in pose scontate adagiandosi al clichè livellante del mercato contemporaneo in barba a tutto il loro primigenio talento, allora vuol dire che siamo davvero “del gatto”. L’aristocrazia musicale (quella intesa nel senso etimologico del termine) ha bisogno di alfieri che riabilitino l’ascoltatore con coraggio, altrimenti il risultato che ne deriva è un pezzo come “Cinema”, che pare costruito per piacere ai giovani in un modo che ricorda gli sguardi ammiccanti dei cinquantenni in crisi di mezza età ad un ballo delle debuttanti più che il “mettersi in gioco” di un caposaldo della storia musicale italiano. Il linguaggio è sempre quello dell’elettronica, è vero, ma manca completamente il “tocco autorale” e indipendente dalla retorica del mercato che negli anni ha consacrato Samuel e i Subsonica a mostri sacri della musica nazionale; se negli anni Novanta l’electro-pop era pionierismo oggi è inflazione pura, e da un maestro del genere abbiamo il dovere di aspettarci qualcosa di più della classica hit da playlist con tanto di Michielin a corredo per ingraziarsi gli ascolti dei più sbarbatelli. Certo, è sbagliato parlare di “aspettative”, e dannoso ai fini della libertà artistica di chi dovrebbe sentirsi libero di esprimersi senza paura di deludere o meno le aspettative di qualcuno. Il problema è che Samuel non avrebbe bisogno di farsi carico delle aspettative del sottoscritto o di chiunque altro, in virtù di un raggiunto status artistico che nessuno vuole mettere in discussione, ma che comunque ha tutto il diritto di volersi mantenere aggiornato e ricodificato; eppure, la mia sensazione è che “Cinema” sia stato scritto più per le aspettative che Samuel ripone nel pubblico (che merita di meglio) che viceversa. E se si aspetta che basti così poco per farci abboccare ad una rigenerazione che pare tutto men che naturale, allora un po’ mi offendo, in nome di chiunque, oggi più che mai, si affida alla qualità (che fa scuola) dei campioni per tirare qualche sospiro di sollievo ad ogni nuovo venerdì di uscite.
SEZIONE VIVAIO
Di fronte al nuovo che avanza ritrarci non è più possibile, se non assumendocene le pesanti responsabilità generazionali; ecco perchè abbiamo bisogno oggi di dedicarci ai polmoni di domani, che hanno bisogno di ossigeno e di speranza. Nasce per questo la “Sezione Vivaio”, con le nostre segnalazioni dei più interessanti emergenti di giornata: solo i migliori fiori che la gioventù, come direbbe Fossati, fa ancora crescere per le strade.
BLUMOSSO, Vabeh
Blumosso è una garanzia, e ad ogni nuova uscita fa di tutto per ricordarlo al pubblico – riuscendoci più di tanti big conclamati della scena. Qualche settimana fa, “Nordest” aveva aperto il nuovo corso del musicista pugliese, oggi “Vabeh” segna la seconda tappa di un cammino che presto troverà una sua quadra nella pubblicazione del trittico “Di questo e d’altri amori“; l’asticella continua, se possibile, ad alzarsi, con un brano di matrice battistiana che trova forza nel testo ispirato di Simone. Un inno alle incertezze della vita per uno che, da sempre, sembra essere interessato più alle domande che alle risposte, più al processo che al risultato. E il risultato, appunto, così facendo non può che essere garantito.
TONYNO, Certe sere
Tonyno è uscito da un varco spazio-temporale che collega, ad ogni nuova pubblicazione dell’artista di Dischi Rurali, la New York degli anni Cinquanta all’Italia del Nuovo Pop: “Certe Sere” è un connubio riuscito fra pop italiano e soul statunitense, nel segno di una sincerità genuina e “rurale” che trasuda dal timbro originale e seducente di Tony; certe cose non si comprano nè possono essere riprodotte digitalmente in studio, e la timbrica vocale è certamente tra queste. Tony è un predestinato alla musica, e lo sa: il suo coraggio è scevro di ogni forma di retorica e auto-referenzialità perchè capace di muoversi nell’alveo di un’espressività naturale, senza scimmiottare niente e nessuno. Con un sound, va detto, che pare “unicum” sulla scena generalista nazionale.
FEDERICO CACCIATORI, Veste di colori
Che coraggio ci vuole, oggi, per fare musica come Federico Cacciatori. Nel senso che nell’era della hit a tutti i costi, prendersi il rischio di pensare la musica come “strumentale” è un lusso per pochi avventatissimi pionieri; i tempi di ascolto si sono ridotti ormai all’osso, e credere di poter incatenare il pubblico di oggi a tre minuti di musica priva di parole è mossa ardita. Federico ci crede, e ha gli strumenti linguistici per farsi sentire: “Veste di colori” è un brano artigianale ma sincero, che magari farà storcere il naso ai puristi (esiste forse qualcuno di puro, ancora?) ma che innegabilmente appare come genuino e onesto, nell’epoca della contraffazione emotiva. Daje Federì, non mollare.
MIRANDA, Eri già mia
Miranda oggi tira fuori il video di “Eri già mia”, che da una settimana potete ascoltare un po’ ovunque; io l’ho scoperto così, con un ritardo velenoso ma di certo rimediabile, visto l’entusiasmo contagioso che l’artista toscano riesce a suscitare sin dal primo ascolto. Canzone d’autore 2.0, suffragata da una scrittura che si fa fortemente “musicale” in virtù di riferimenti multiplanari e disparati: c’è il cantautorato italiano, certo, ma quelle chitarrine gustose alla Mayer aprono l’occhio oltre i confini nazionali, dando al brano un respiro sospeso tra lo-fi, brit-pop e Francesco Baccini. Strano trinomio, eh? Ascoltatevi Miranda e capirete che, oltre ad essere strano, il tridente addotto per “riassumere” la proposta dell’artista risulta anche tremendamente riduttivo. Ottimo esordio.
VEIVECURA, Generiche domande
Scaccia i brutti pensieri, la spensieratezza dei Veivecura. “Generiche domande” ricorda tante belle cose (da Giorgio Poi alla pop d’autore anni Ottanta) senza sedersi su pose emulative di sorta; il sound è tremendamente fresco senza l’ansia di dover piacere a tutti i costi: non c’è la ricerca del successo o dell’inserimento in playlist nel nuovo singolo dei Veivecura, che riesce proprio per questo a convincere per sincerità ed urgenza. Il ritornello è tormentone perchè tormentato, e in fondo utile a calmare nell’ascoltatore la smania di risposte che ogni giorno ne attanaglia la coscienza.
BIDIBEA, Un martedì sera
Buon esordio per Bidibea con “Un martedì sera”, fuori da oggi per Roba Da Matti Dischi; la ragazza si fa forte di una vocalità potente ed emotiva, che ricorda per timbrica le grandi interpreti femminili (sopratutto la Laurona nazionale), ma anche il testo si difende piuttosto bene. Il riferimento centrale resta un pop forse un po’ datato, ma che non per questo può essere sbolognato come inefficace o superato; con un pizzico in più di personalità autorale, Bidibea potrebbe prendere il volo. Il timbro c’è, il talento anche, il tempo sopratutto dirà la sua.
IDA NASTRI, Paradossale
Che Ida abbia gusto è ormai una certezza. Paradossale, per così dire, che con “Paradossale”l’artista abbia potuto ancora alzare l’asticella, perchè questo è successo; la produzione è davvero forte, a metà tra Emanuelle, disco anni Ottanta e tecno alla Cosmo, a far da volano ad una vocalità che gode certamente di un testo intelligente, ben scritto e ben performato. Forse il mio brano preferito dell’artista di Romolo Dischi, in attesa di qualcosa che possa stupirmi ancor di più. Fin qui, percorso netto.
FANIZZI, Vita da film
Non male l’esordio di Fanizzi, che in “Vita da film” si affida alla produzione di Molla per un brano intimo e sentito, che mantiene per tutti i tre minuti del pezzo un mood giusto, emotivo e sincero; il timbro è quello dei potenziali purosangue, per un singolo che forse nel ritornello perde l’identità delle strofe sedendosi un po’ troppo su un “andamento” alla Gazzelle che (personalmente) non mi impazzire. Nonostante ciò, non sarà certo questo a precludere all’ascoltatore la possibilità di definire “giusto” il primo passo di Fanizzi verso la conquista di un’autoralità che farà parlare di lui, una volta raggiunta.