Torna Will Stratton con il suo tocco gentile, il suo folk pieno d’empatia, la voce calda che impreziosisce l’album numero sette. Molte persone negli ultimi mesi hanno affermato di aver riscoperto se stessi, Stratton non ne aveva alcun bisogno visto che già nel disco precedente “Rosewood Almanac” del 2017 (giusto per non andare ancora più indietro nel tempo) dimostrava di possedere il dono dell’introspezione. Merce rara, da preservare come una specie in via d’estinzione. Sono passati quattro anni e qualcosa è cambiato nel disegno sonoro di un musicista educato e poco esibizionista.
Chitarre acustiche ed elettriche (a suonarle c’è anche Ben Seretan) sintetizzatore e vibrafono, piano, batteria, sassofono, contrabbasso contribuiscono a creare arrangiamenti stratificati che non mettono mai in pericolo la semplicità di armonie create con la cura e il virtuosismo di sempre. La dolcezza amorosa di “Tokens” viene immediatamente stemperata dalla distorsione di “Black Hole” brano nato durante l’era Trump che rimette tutto in discussione, perfino il rapporto tra amore e odio che da sempre è base e ispirazione della scrittura di Will.
“The Changing Wilderness” è anche un disco basato sull’intreccio di tante voci: Katie Mullins, Maia Friedman, Cassandra Jenkins, Eamon Fogarty oltre quella di Stratton. Incontri che rendono brani come “Infertile Air” e “Fate’s Ghost” molto intensi, senza nulla togliere a gran bei numeri di dolce folk più classico come “The Rain”, “Stillness” o “Finally Free” e la romantica “When I’ve Been Born (I’ll Love You)”. Will Stratton riesce di nuovo a fermare il tempo quasi volesse ricordare che il presente non è poi così male.