Ci sono voluti 16 anni per approdare a questa seconda collaborazione fra Matt Sweeney e Will Oldham, 16 anni in cui si potrebbe sintetizzare che è bastata una declinazione al plurale del titolo per dare un tocco in più a qualcosa di già storicamente consolidato.
Il connubio fra il navigato chitarrista e l’ex paladino dei Palace Brothers qui in questo seguito della collaborazione si rivela ancor più riuscito, le melodie, i suoni in generale creati da Sweeney si integrano alla perfezione coi testi al solito profondi e di un lirismo enigmatico di Bonnie Prince Billy dando vita ad un disco che si potrebbe definire fuori dal tempo, non ancorato a mode contingenti, nel solco della grande tradizione del folk americano nel più ampio senso possibile di questa definizione, con soventi deviazioni, minime ma importanti, nelle canzoni più riuscite.
Si prendano ad esempio l’iniziale “Make worrry for me”, un blues sotterraneo che vira nei territori dell’ultimo Lou Reed periodo “New York”, la delicatezza di cose come “My popsicle”, già dal titolo zuccherosa, una specie di ninna nanna verso il/la figlio/a, in formato acustico, ermetismo da grande songwriter di BPB, 4 frasi per esprimere un universo, e rimanendo nel solco della profondità l’ultima “Not fooling” evocativa ballata dylaniana sull’abbandono e tradimento delle amicizie.
A dare un’ulteriore sensazione di atemporalità a questi brani contribuisce in modo decisivo anche il cantato di Oldham, con questo timbro antico, impastato con le viscere da cui nascono i versi delle canzoni, con un’assonanza così sincera con le emozioni provocate che sembrano parole cantate e scritte sempre all’istante, sia quando i toni si accendono (“I’m a youth inclined to ramble”) o quando si fanno pacificati (“I’m good to my girls”); ma qui c’entra anche l’idea della marginalità rispetto ad un mainstream produttivo, vedasi questi 3 lustri di attesa, che fa riferimento al sempre amato motto dire qualcosa quando ha il senso di dirlo, che a ha che fare con la vita vera, fatta di maturazione e di feeling.
Perchè questo è un disco pieno di feeling, fra gli autori, dentro e fuori le canzoni, che cresce ascolto dopo ascolto, non di immediato accesso e godimento, anche perchè forse troppo lungo, 3-4 pezzi in meno forse permettevano di non far abbozzare a volte un senso di noia, che in effetti dopo la seconda parte dell’opera può cogliere; però, “Superwolfes” è anche qualcosa di estremamente rassicurante, sembra che qualunque sia il punto in cui si inizi ad ascoltarlo, non non si senta la neccesità di andare oltre per capire dove stiamo, risponde ad un’esigenza corta, certo, forse astraendo, non proprio da maggio inoltrato, ma da canzoni da caminetto, di cui sicuramente avremo bisogno il prossimo inverno, ma anche in qualche solitaria notte d’estate.
Credit Foto: Jonah Freeman & Justin Lowe