Gli Sweet Trip sono un misconosciuto gruppo di San Francisco formato dal produttore Roberto Burgos nel 1993. Vi sono ben poche tracce del loro passaggio sulle riviste di settore specializzate: la band è uno di quei carneadi che sono sopravvissuti solo grazie ai passaparola di pochi incalliti sostenitori.
Definire il loro genere è alquanto arduo: partiti dall’IDM e dall’ambient-techno di Seefeel e Aphex Twin col primo LP “Halica” (1998) e l’EP “Alura” (1999), nel 2003 pubblicarono quello che è probabilmente il grande capolavoro del glitch, “Velocity : Design : Comfort”, sotterraneamente assurto ad album di culto presso il popolo di internet (in particolare su RateYourMusic, dove gli Sweet Trip sono dei feticci intoccabili), per chiudere con l’indie-pop d’antan di “You Will Never Know Why” del 2009. Ma altre influenze sono lo shoegaze classico di My Bloody Valentine e Slowdive, dovutamente “meccanizzato”, il dream-pop dei Cocteau Twins, e l’ambient-pop sperimentale degli Stereolab, tutto shakerato con fine melodismo, il chè rende la loro musica potenzialmente attraente anche agli ascoltatori più disimpegnati.
Ringalluzziti dalla loro inaspettata riscoperta, Burgos e la sodale di vecchia data Valerie Cooper tornano con questo “A Tiny House, In Secret Speeches, Polar Equals” e la deliberata scelta di riassumere quel disomogeneo percorso in un canone che lasci ai posteri l’ardua sentenza sulle qualità della loro opera. Gli Sweet Trip creano quindi un album contenitore di tutte quelle idee che, in quasi 30 anni di carriera, hanno dato in pasto ad un pubblico particolarmente pigro, che ci ha messo un’eternità a riconoscervi del talento: perchè tutti i loro album erano di ottima fattura, e perchè il sound dei californiani si riconoscerebbe tra mille, manifestando quanta personalità trasudi dai lavori di questi umili mestieranti del mixer.
Gli Sweet Trip hanno infatti creato una particolare forma di shoegaze elettronico che non ha eguali nel pop dell’ultimo ventennio, e a riascoltare i vecchi dischi si trovano idee e intuizioni che dimostrano quanto fossero colpevolmente avanti rispetto ai tempi. E, giustamente, sarà venuta anche a loro la voglia di riscuotere i sospesi.
L’inizio è abbastanza in sordina, e non disvela ancora l’armamentario pesante, preferendo una presentazione generica della loro varietà di stili. “Tiny Houses” è il biglietto da visita della distintiva foggia di glitch/shoegaze perfezionata negli anni. “Surviving a Smile” connette il sophisti-pop degli anni “’80 alla maniera della chillwave popolarizzatasi nel decennio scorso. La chanson filtrata dalle nuvole di “The Weight of Comfort, This Rain Is Comfort, This Rain Is You” è un bozzetto romantico dallo spiccato gusto melodico, un pop da camera vintage che da noi ha come massimi campioni i Baustelle. Dopotutto, quello degli Sweet Trip è, al netto degli orpelli elettronici, un retro-pop gentile e armonioso, per cui ogni singola nota deve titillare il ricordo inconscio, onirico, rassicurante del caldo ventre dell’infanzia, perfettamente calato nello zeitgeist e nell’estetica “vapor” che ha monopolizzato le autoproduzioni su internet.
Liquidati i convenevoli, da “In Sound, We Found Each Other” in poi si affonda in territori pesantemente psichedelici, carezzevoli pellegrinaggi lisergici che palesano il motivo per cui i Nostri hanno deciso di appellarsi “dolce viaggio“. “Chapters” si spinge oltre ed è forse la vetta di questa fase del percorso, il manuale del perfetto glitch-pop: i segni stilistici che affiorano (IDM, bitpop, colonne sonore di videogiochi anni “’80, drum “‘n bass, synthwave), tutti sfilacciati, sfregiati, sovrapposti e concatenati, riconvergono e implodono sul nucleo come attratti da una forza di gravità . Basterebbe questo brano per intuire e apprezzare la classe di Burgos al missaggio.
I “glitch” ricorrono in maniera meno omogenea rispetto a “Velocity : Design : Comfort” e hanno la funzione di legare i brani l’un l’altro in un continuum. La languida “Eave Foolery, Mill Five” è farina nel sacco degli Slowdive mentre si tuffano da una cascata in un lago incantato dalla luce delle stelle. In “Snow Purple Treasures”, graziata dai soavi vocalizzi della Cooper, il romantico girotondo rievoca le surreali cantilene della Julee Cruise resa immortale dalla sigla di “Twin Peaks”, ma la lussureggiante coda psichedelica spinge verso un piano ancor più celestiale. Nemmeno Beach House e Candy Claws, per citare i più importanti gruppi shoegaze/dream pop degli ultimi anni, sono mai riusciti a costruire monumenti sonori come quelli che gli Sweet Trip sparpagliano con nonchalance sul terreno al loro passaggio.
L’IDM di “Halica” sbuca in “Randfilt”, attualizzata secondo le sonorità nostalgiche dell’ipnagogia, certificando quanto gli Sweet Trip siano saldamente calati nella contemporaneità , nonchè nelle sperimentazioni di “You”, che cambia pelle almeno tre volte nel giro di 5 minuti. E anche “Polar Equals” si diverte a ricondurre i Cocteau Twins sotto l’egida della loro ambient-techno acida, prima di librarsi in uno space-rock à la Spiritualized, far riaffiorare i battiti irregolari delle macchine e chiudersi in una pigra ninna-nanna in dissolvenza nello stile di Christian Fennesz, a cui i californiani devono un bel pezzo di carriera.
L’indie-pop più convenzionale di “You Will Never Know Why” è l’ingrediente usato con più parsimonia, ma quando ne viene data una spolverata, la pietanza sfornata è sempre succosa e saporita. “Walkers Beware! We Drive Into the Sun”, singolo di lancio e unica canzone davvero lineare, risulta anche la più orecchiabile del lotto ed uno si chiede cosa avrebbero potuto fare quei due con un pizzico di malizia ed un marketing appena più aggressivi. Il sognante tripudio di percussività elettronica di “At Last a Truth That Is Real”, abborracciata con altisonanti riverberi, è il degno gran finale. Le sensazioni di pace ed estatica contemplazione che fuoriescono da queste tracce sono stupefacenti per garbo e ardore compositivo.
Meno spontaneo di “Halica”, meno sperimentale di “Velocity : Design : Comfort”, meno immediato di “You Will Never Know Why”, questo quarto capitolo riesce dunque nell’impresa di autoerigersi a magniloquente summa della loro arte. La tecnica scultorea certosina toglie forse qualcosa alla genuinità d’insieme, e 70 minuti sono forse troppi da metabolizzare in un sol colpo, ma le qualità di cui gli Sweet Trip volevano far bella mostra sono tutte lì, pronte ad essere voracemente assorbite sia dallo zoccolo duro di vecchi fan (cui orgogliosamente mi iscrivo) che dai curiosi e onnivori amanti del rock che verranno. Il mio augurio è che questo (grande) gruppo ottenga infine i meriti che spettano ai pionieri più illuminati.