Ritorno stimolante quello dei The Datsuns, neozelandesi con quasi vent’anni di carriera alle spalle (l’esordio omonimo è del 2002) esimi rappresentanti di quella generazione musicale che ad inizio millennio ha riportato in pista un rock rumoroso e genuino, sfrenato e divertente che svegliava i corpi e le menti. I Wolfmother, giusto per restare down under, sono stati forse l’esempio più eclatante prima di perdersi tra cambi di formazione e momentanei ritorni. La carriera dei The Datsuns è stata in confronto molto più lineare.
Discograficamente mancavano da “Deep Sleep” del 2014, anni comunque intervallati da tour e concerti che hanno mantenuto Dolf de Borst, Christian Livingstone, Phil Somervell e Ben Cole in forma campionato. “Eye To Eye” non fa nessuna concessione alle mode o alle nuove tecnologie, lo stile del quartetto resta legato alle radici di un rock puro e non compassionevole, dominato dall’intreccio di chitarre e batteria, che a tratti assume fulgide tinte psichedeliche.
Undici brani in trentotto minuti in una cavalcata che parte con gli acuti, il falsetto, i cori e l’assolo fiammeggiante di “Dehumanise”, continua a ritmo sostenuto con “Warped Signals” che ricorda i Black Rebel Motorcycle Club, con la grinta di “Sweet Talk” e “Bite My Tongue”, lo spolvero elettrico di “Brain To Brain”. Altri assoli da mettere nel carniere: quelli di “Suspicion” che ha le carte in regola per essere un singolo, di “Raygun” col suo incedere militare, della spettinatissima e distorta “Other People’s Eyes”.
Il lato più melodico dell’album è affidato a brani come “White Noise Machine”, alla ballata psichedelica “Moongazer” e alla conclusiva e movimentata “In Record Time” che chiudono i giochi e dimostrano ampiamente che c’è ancora vita e voglia di fare sul pianeta The Datsuns. I neozelandesi arrivano al settimo disco rinvigoriti e vivaci, combattivi come non mai.