Nel 1996 usciva questo EP dei Julies, band americana di Mechanicsburg (Pennsylvania) che, come tutte le meteore che si rispettino, illuminò il firmamento per poi scomparire ai nostri sensi, veloce ma coinvolgente. Qualche decina di anni dopo la label Lost in Ohio recupera il materiale della band dando qualche tocco di perfezionamento del suono ai 6 pezzi del disco con una nuova masterizzazione di TV Welsh.
La band si sciolse ancor prima dell’uscita del disco avendo alle spalle un solo e altro EP, “January”, un demo pubblicato nel 1995 e che verrà pure reso disponibile in versione digitale e cassetta.
La ristampa non è fine a se stessa, la band si era finta meteora e sembra molto probabile un loro nuovo lavoro previsto per l’anno a venire.
Non vogliamo e non possiamo quindi perder l’occasione per parlare di quell’EP. I motivi sono vari ma il più importante è che i brani hanno davvero una consistenza importante. Si fanno nomi importanti quando si cercano paragoni con altre band e per i Julies si scomodano pezzi da novanta. Cure, Smiths e Catherine Wheel vengono sicuramente a bussare incuriositi alla nostra porta mentre le note dei brani di Lovelife si fanno ascoltare.
“Wake Up, Christine”, è incensata della melodia Morrissiana e da un testo che cammina mano nella mano con le liriche del Moz.
“Christine, I know but it’s hard for me to let it show / and I keep thinking how they went all the days we never spent”
“Blue” scorre come un fresco torrente, chitarre che scivolano leggiadre, ci portano indietro nel tempo, tra dolci suoni che giocano a prendersi in giro, trovando un accordo tra le pretese di Robert Smith e Lloyd Cole.
“Friday & Faithless” trova in un finale impetuoso la scusa buona per chiuderci metaforicamente la porta in faccia. Tumultuoso e focoso a tratti s’ intristisce, perde vitalità : “it’s not the way you say you’re lonely when you’re only alone / you’re only alone”.
Vogliamo definitivamente innamorarci della band o del loro prodotto? Nulla di più facile ascoltando “Love Scene Seventeen”, una perla, un miracolo musicale, chitarre scintillanti, basso e batteria che invogliano la muscolatura a creare acido lattico, mentre Chris Newkirk (anima della band) ci racconta il suo rapporto, una sorta di dipendenza, con una stella del cinema.
“Drive me Mad” è l’opener che seleziona, dentro o fuori dall’album, no perditempo. Il ritornello (“I want to hate you but it’s too late to / I guess I love you all but it’s enough to drive me mad“) è un lasciapassare, entrano solo quelli che certe sonorità non solo le capiscono ma ne rimangono talmente percossi da non poterne più dimenticare l’affronto. E ci torni sopra, anche se il ricordo fa male.
Sei brani che lottano per mettersi in mostra, (“Boy Wonder” non è di certo da meno) che finalmente tornano in superficie, come quelle splendide opere d’arte rimaste sepolte per secoli sui fondali marini e scoperte grazie all’amore di chi sa cercare.
Credit photo: Scott Mcclain, Cristina Garcia