Ho conosciuto di persona Patrick Duff nel 2014, a Londra, era di supporto ai Menswe@r. Parlammo dell’intervista che avevo avuto modo di fare con lui via mail un po’ di tempo prima e mi feci una foto che, ancor’oggi, tengo incorniciata in bella vista. Era una persona diversa da come lo ricordavo: solare, tranquillo, felice. Una persona nuova. Fu un vero piacere vederlo così sereno.

Il Patrick Duff leader degli Strangelove era tutt’altro. Un uomo ossessionata dalle sue paure, preda di demoni che non lo rendevano tranquillo, ma anzi, lo stavano inesorabilmente facendo scivolare nell’autodistruzione. Non dimenticherò mai il suo show all’Auditorium Flog di Firenze, prima dei Suede, in cui urlava tutta la sua disperazione al microfono, strappandosi i capelli, ma non in senso figurato, no, se li tirava così forte che gli restavano in mano. Ebbi modo di incrociarlo in bagno dopo lo show: era il mio idolo, ma non ebbi neanche il coraggio di dirgli una parola; si guardava allo specchio con aria tenebrosa. Metteva timore, soggezione. Ma, visto che siamo in vena di aneddoti, come dimenticare quel suo show da Red Ronnie, in cui, durante l’esecuzione dei brani, camminava tra i ragazzi presenti in studio e si divertiva a prendere in giro il povero Red, evidentemente non in grado di tenere testa a un personaggio così istrionico.

Tutto indimenticabile.

Intercettai gli Strangelove ovviamente grazie a Rockerilla e a Giancarlo Costamagna, che non mancava di recensire i primi singoli di una band che si dimostrava assolutamente visionaria, oscura e fuori dagli schemi già  dagli esordi. Oggi andiamo a parlare del loro secondo e, a detta di molti, miglior album, ovvero “Love And Other Demons”, uscito nel giugno 1996.

Il loro primo album, datato 1994, è uno di quei dischi che posso tranquillamente dire mi abbiano segnato l’esistenza. Quella disperazione e quel male di vivere non mi lasciava tranquillo, entrava sottopelle e diventava qualcosa che catturava i pensieri. Questa seconda fatica non fu da meno. Gli elementi della band sono tutti qui, in bella mostra, capaci di catturarci e ipnotizzarci: un viaggio oscuro e malato in un mondo ombroso, disperato, straniante e di difficile gestione, ricco di una specie di umorismo sarcastico e spavaldo ma anche di momenti di sconforto. Un guitar-pop che non dimentica ne la lezione del glam ne quella degli Echo & The Bunnymen, ma che conosce momenti più avvolgenti e asciutti, ma non per questo meno ricchi di pathos e suggestione affascinante. Forse questo disco rappresenta quello che avrebbero potuto essere i Radiohead (magari in vena di collaborare con i Suede dei primi due album) se non avessero preso una via tutta diversa già  con il terzo lavoro. Da notare come proprio Ed O’Brien usò il gruppo di Bristol come pietra di paragone: “Radiohead are definitely post-Strangelove“.

“Living With The Human Machine” (in cui suona anche Richard Oakes) è il tempestoso e deragliante inizio, che diventa disperata invocazione a Cristo affinchè venga a salvare nuovamente l’umanità  alla deriva: “Hey Jesus, won’t you come on down? / Why don’t you show yourself? / We need you more than ever now…This Is a Message To The Sky…“. Mentre Patrick lancia il suo messaggio al cielo le chitarre ruggiscono rabbiose e rumorose. Il colpo arriva dritto al volto e lascia il segno. “Beautiful Alone” almeno musicalmente porta un po’ di sole nella tempesta, con quel suo andamento decisamente “smithsiano”. Terzo brano in scaletta e ancora un singolo, così come i precedenti due. Stiamo parlando della struggente “Sway”, in cui l’arrangiamento d’archi la fa da padrone, con quell’inizio da pelle d’oca con l’acustica che entra fra i violini e la successiva voce del cantante che arriva a dire: “My Life Don’t Belong To Me“. Saliscendi sonici in “20th Century Cold”, che alterna momenti più tranquilli ad altri in cui il battito accelera fino al finale distorto e urlato. A metà  disco arriva la vera perla, forse il brano più intenso dell’album, in cui fa capolino pure la voce di Brett Anderson: stiamo parlando di “She’s Everywhere”, ballata magnifica che risulta praticamente impossibile da descrivere a parole, perchè certi diamanti li puoi solo ammirare, non raccontare. Sinuosa e avvolgente è un vero e proprio incanto ad occhi aperti. “1432” è incantevole intermezzo acustico che a me, giuro, porta sempre alla mente la colonna sonora del film “Il Cacciatore” di Cimino.

“Casualties”, lunga più di sei minuti, si divide nettamente in due parti. La prima più riflessiva, con il tono basso e corposo di Patrick, mentre dal terzo minuto in poi John Langley, alla batteria, inizia ad alzare i giri del motore, così come Alex Lee e Julian Pransky Poole tirano fuori una vera e propria cavalcata glam-rock con tanto di voci che si rincorrono e sovrappongono fino alle schitarrate finali. “Spiders And Flies”, che parla dell’influenza del web nelle nostre vite, si basa moltissimo sul suono del piano, con una buonissima melodia. Ancora ritmi più bassi e piano a dettare la via in “Elin’s Photograph” con un ritornello evocativo e suggestivo, quasi spirituale.

La conclusione è di quelle che ti entrano nel cuore per tutta la vita. “The Sea Of Black” non può essere definita una semplice canzone, no, è un vero e proprio viaggio sublime e ad occhi chiusi in una nuova dimensione (“I will drift ‘cross this sea / With my wooden memory / I will drift ‘cross this sea until I die / Hear no voice see no smile / Feel no love by my side / For no ship can return her back in time / Remember where you’re going won’t be long“): onde iniziali che cullano la nostra essenza, mentre il vento si fa sempre più corposo e ci ghermisce in un climax che, così com’è arrivato, è capace di scemare subito in una deriva morbida, in cui perdersi per sempre…

Dopo venticinque siamo ancora qui, in balia di queste emozioni infinite, figlie di un disco intenso e affascinante, che sicuramente ha messo a dura prova i suoi autori e lo stato di salute mentale di Patrick Duff, ma che noi, ascoltatori, non riusciamo a smettere di ammirare e ascoltare, ipnotizzati e catturati da un magnetismo di rara bellezza.

Pubblicazione: 18 giugno 1996
Durata: 46:50
Genere: Indie- Rock

Tracklist:
1. Living With The Human Machines
2. Beautiful Alone
3. Sway
4. 20th Century Cold
5. She’s Everywhere
6. #1432
7. Casualties
8. Spiders And Flies
9. Elin’s Photograph
10. The Sea Of Black