Joey Cobb e Katie Drew arrivano finalmente all’album e confermano quanto di buono avevamo già colto nelle loro precedenti uscite. Il disco è la fotografia (ovviamente in bianco e nero) di un viaggio musicale che sembra guardare con incanto e ammirazione agli anni ’80 dei Cocteau Twins, nutrendosi di suggestioni e sensazioni più che di melodie e ritornelli avvincenti. Intendiamoci, la forma canzone (pur con una evidente tendenza al minimalismo) è assolutamente rispettata, con alcuni passaggi particolarmente belli e capaci di conquistare al primo ascolto con la forza sublime della grazia e della delicatezza (“Daylight” o “Help Me Help Myself”, tanto per fare due citazioni), ma sono convinto che il disco dei White Flowers brilli grazie al riuscito tentativo di trasmettere emozioni e stati d’animo.
E’ un mondo oscuro ed etereo quello della band, come se la nostra realtà fosse diventata quella surreale di Twin Peaks e la nostra colonna sonora uscisse perennemente dal Roadhouse. Joey e Katie, giovanissimi, riescono nell’intento di mettere in musica incertezze e quel senso di confusione proprio della loro età , ma che mai come ora appartiene veramente a tutti. Eppure la presenza, iconografica, del bianco ci infonde speranza, candore e purezza, come se una luce riuscisse sembre a brillare anche in mezzo a tanta uggiosità e ansia, dati dal nero. Se non altro, come dicono loro stessi, con questo contrasto dei due colori c’è più spazio per la fantasia e, con quella, ci è possibile anche crearci una nicchia in cui sentirci protetti e al sicuro o, perchè no, anche eccitati per qualcosa che solamente intravediamo in lontananza.
Se la prima parte del disco si muove sulle coordinate del dream-pop con dei dettami già ben scolpiti da altre formazioni in passato, ecco che nel finale arrivano cose più personali e decisamente intriganti, sopratutto quando la band non disegna soluzioni elettroniche (mai invadenti a dire il vero) che potrebbero richiamare gioiellini di casa Warp o i Portishead. “Day By Day” è punto focale dell’album e sembra realmente carico di nubi “lynchyane”, mentre la soluzione synthetica di “Different Time, Different Place” è davvero suggestiva e seducente. Ottimo il lavoro ritmico insistente di “Portra”, vera e propria porta di passaggio tra il sogno e l’incubo, tra una ninna nanna dolcissima e suoni odivaghi e battiti più pesanti che sembrano carichi di brutti (ma indecifrabili) presagi, come se fossimo stati catapultati nel disco “Evanescence” degli Scorn.
Sono proprio questi ultimi brani citati che fanno guadagnare a “Day By Day” quel mezzo voto in più, arrivando a un 7,5 in pagella che ci pare più che meritato.