Ed eccolo qui, l’attesissimo ritorno di Liz Phair. Undici anni dopo il non particolarmente apprezzabile (per usare un eufemismo) “Funstyle”, la cantautrice statunitense rompe il lungo silenzio con i quaranta minuti abbondanti di “Soberish”. Stando alle parole della diretta interessata, il disco nasce come reazione all’età che avanza ““ ma sarebbe meglio parlare di paura della morte visto che, da quanto si apprende dal comunicato stampa che ne accompagna l’uscita, il processo creativo avrebbe preso il via a seguito delle insistenti pressioni di un manager intristito dalle premature dipartite di David Bowie e Prince.
«Cosa vuoi fare della tua carriera? Non sai che da un giorno a un altro potrebbe venirti un coccolone? Stai lavorando a qualcosa di abbastanza valido da poter essere tramandato ai posteri, come fosse un testamento artistico? ». A questo fiume di domande Liz Phair non ha risposto come probabilmente avremmo fatto tutti noi ““ ovvero facendo gli scongiuri e coprendo di improperi il collaboratore ““ ma andando a recuperare la sua vecchia collezione di vinili art rock e new wave, ovvero la musica con cui è cresciuta. Tutto ciò per riscoprire le proprie radici, riaccendere l’ispirazione e resuscitare una carriera moribonda.
I modelli di riferimento dichiarati per le tredici tracce di “Soberish” sarebbero i seguenti: The English Beat, The Specials, Madness, Yazoo, The Psychedelic Furs, Talking Heads, Velvet Underground, Laurie Anderson, The Cars e i R.E.M. di “Automatic For The People”. E quanto si avverte l’influenza di cotanti pesi massimi? Poco o nulla.
Se escludiamo i vaghissimi richiami all’universo loureediano presenti in “Hey Lou” ““ vabbè, è proprio dedicata a lui ““ e in alcune parti di “Ba Ba Ba”, il resto dell’album viaggia seguendo le coordinate di un alt rock di matrice “’90s imbevuto di atmosfere intime e delicate, a tratti un po’ più grintoso (“Bad Kitty”, “Good Side”) ma generalmente ancorato a piacevoli sonorità soft che, c’è da dirlo, in più di qualche episodio girano veramente molto bene (da non perdere le folkeggianti “Sheridan Road”, “Soberish”, “Lonely Street”, “Dosage” e la lugubre “Soul Sucker”).
La decisione di abbondare con inserti elettronici dal gusto alquanto antiquato toglie genuinità a un disco che, nonostante un paio di scivoloni pop (i singoli “Spanish Doors” e “The Game”, decenti ma estremamente anacronistici), rimette nella giusta carreggiata artistica la ritrovata ““ o rinsavita? – Liz Phair. I tempi gloriosi di “Exile In Guyville” sono però lontanissimi.
Credit Foto: Eszter+David