Sebbene questo sia solo il suo secondo album solista (e il primo per la Polyvinyl), il curriculum del classe 1976 carioca di stanza ormai da lungo tempo a Los Angeles è piuttosto ampio: dopo l’esperienza con la band indie-rock brasiliana Los Hermanos (con cui ha pubblicato quattro LP), con l’Orquestra Imperial e con i Little Joy insieme a Fabrizio Moretti degli Strokes e a Binki Shapiro, per Rodrigo Amarante è arrivato anche il momento di iniziare una carriera personale con il primo album, “Cavalo”, che è arrivato nell’ormai lontanto 2014 (anche se nel nativo Brasile era già stato pubblicato l’anno precedente).
Cantato in portoghese e in inglese, questo nuovo disco, che ha iniziato aprendere forma a fine 2018, ma è stato terminato solamente lo scorso anno, si riferisce a due fatti della sua vita, una malattia infantile che gli ha fatto apprezzare la bellezza della seconda possibilità e il momento in cui il padre gli ha tagliato i suoi capelli lunghi, come modo per introdurlo al mondo adulto, eliminando il dramma e la sensibilità dalla vita del giovane uomo, in questo caso, però, consenziente, come ammette lo stesso Amarante nella press-release.
Il primo singolo “Marè”, che è in realta una parola spagnola, ci accoglie con allegria e calore (nonostante i testi siano piuttosto tristi) ed è animato da percussioni e fiati che sembrano provenire dalla tradizione brasiliana.
Poco più avanti “Tanto” ci incanta con quei suoi ritmi dancey: le sue melodie dai profumi tropicali non sono disegnate solamente dalla chitarra di Amarante, ma anche da percussioni, fiati e soprattutto da un violino che ci incanta per la sua bellezza.
“I Can’t Wait”, invece, è cantata in inglese ed è un brano dai toni piuttosto malinconici e tranquilli, ma che fa comunque un interessante utilizzo delle percussioni.
Eccellente poi l’uso che Rodrigo fa della strumentazione in “Sky Beneath”: se da una parte possiamo trovare dei vocals rilassati, riflessivi e, se vogliamo, abbastanza cupi, dall’altra c’è la vivacità di percussioni, archi e fiati che continua a colorare il paesaggio creato dall’artista nativo di Rio De Janeiro.
“The End”, che chiude il disco, è una ballata piuttosto scura in cui la voce di Amarante è supportata dal suono del piano, ma non mancano anche il violino e alcuni handclapping abbastanza imprevisti.
Davvero un ottimo lavoro questo sophomore solista del musicista di stanza a Los Angeles, che sa navigare tra la sua tradizione sudamericana e generi come il folk e il cantautorato: un album di valore capace in più di un occasione di non scegliere la strada più facile o scontata e proprio per questo guadagna ulteriori punti sul nostro cartellino.
Credit Foto: Eliot Lee Hazel