Correva l’anno 2017 quando una band chiamata Horsey faceva capolino sui palchi e on line con appena tre brani, sufficienti a scatenare un discreto polverone con testi splatter al limite del surreale e una forte presenza scenica. Quattro anni e una pandemia dopo ecco materializzarsi “Debonair” esordio del quartetto formato da Theo McCabe (tastiere e voce) Jacob Read (voce e chitarra) George Bass e Jack Marshall, rispettivamente batterista e fratello maggiore di quell’Archie Marshall in arte King Krule che presta la sua stralunata e incisiva vocalità a “Seahorse”.
La missione impossibile degli Horsey sembra quella di non prendersi (troppo) sul serio, fondendo stili e influenze all’interno di uno stesso brano, dal jazz alla melodia, post punk e garage rock senza badare a spese nè porsi limiti. Il talento grezzo c’è e si vede in un amabile lavoro di riferimenti incrociati, conditi con una buona dose di sarcasmo e ironia. Ritmi taglienti, suoni irriverenti popolano “Sippy Cup”, l’esplosiva “Arms and Legs” e la cattivissima “Everyone’s Tongue”, “Wharf (ii)” è la loro piccola, macabra marcia trionfale, “Clown” un delirio di tre minuti e ventisette secondi.
“Lagoon” li trasforma in crooner d’antan posseduti dallo spirito di Jerry Lee Lewis, con un video in cui da bravi maestri del travestimento si divertono a tentare l’incrocio tra Tenacious D e Dee Gees con buona pace dei Foo Fighters. Perfino brani classici che più classici non si potrebbe come la murder ballad “Underground”e la graffiante “1070” o la delicata “Leaving Song” lasciano intravedere i muscoli sotto le giacche dorate che appaiono in copertina.
“We don’t want people to laugh at us, we just want them to think: Why would they ever think that was good?!” ha detto ridendo Theo McCabe e la filosofia degli Horsey è tutta qui. Spiazzanti, spesso eccessivi, senza freni, volutamente molto sopra le righe. O li ami o li odi.
Credit Foto: Reuben Bastienne-Lewis