Giunta al suo quinto album, l’artista catalana Joana Serrat, di stanza ormai in territori americani, ha optato per un album che la smarcasse dai confini un po’ ristretti della musica folk, seppure di buona fattura.
Chi vi scrive è un appassionato di questa cantante giramondo, che dall’assolata Catalogna ha voluto trovare ispirazione e il contesto giusto per animare i suoi istinti musicali, approdando dapprima in Irlanda ma poi spostando la propria attenzione al di là dell’Oceano, sulle orme del padre putativo Bob Dylan.
Ammiravo molto il suo approccio acustico e le divagazioni countryeggianti presenti soprattutto nel disco precedente “Dripping Springs”, inciso a Montreal, ma da lì in avanti la vita della Serrat e la sua esperienza artistica si è abbeverata delle influenze dei grandi folksinger a stelle e strisce, con l’occasione irripetibile di potersi esibire nell’ambito dell “Americana UK Festival”, nel quale la Nostra ha saputo allargare il cerchio dei suoi estimatori, dopo che già l’interessamento (e il conseguente intervento in fase di produzione per il disco sopracitato) di Israel Nash aveva acceso i fari su di lei.
Per il nuovo album la Serrat ha scelto il Texas e la sapiente guida di Ted Young in cabina di regia, l’uomo che già aveva messo in luce il suono di un talento purissimo come Kurt Vile, ma alla fine il sound, che a questo punto avremmo ipotizzato ancora più in linea con i gusti del luogo, ha preso un’altra piega, assecondando un più ampio respiro e la creazione di differenti suggestioni sonore.
E’ un disco, questo nuovo “Hardcore from the Heart”, che sin dal titolo mostra l’autenticità del progetto, e una genuinità a tratti disarmante nel suo candore ma che è allo stesso tempo assolutamente delineata e ragionata, passatemi il termine.
Anche solo per i tempi infiniti di gestazione – con gran parte delle tracce composte addirittura nel 2019 – si intuisce come le cose siano state fatte per bene, lavorate di cesello, oltre che sorrette da grande sentimento.
Con un roster di musicisti affiatato – e la partecipazione anche del fratello Toni – la cantautrice spagnola ha potuto trasmetterci perfettamente una vasta gamma di sensazioni, aprendoci il cuore e facendoci conoscere il suo mondo interiore.
I temi trattati in questi undici brani sono prettamente esistenziali, con il gioco delle relazioni che si dispiega in più parti e sonorità che al più intendono rassicurare l’ascoltatore, cullandolo e tenendolo stretto a se’.
Sono un amante del dream pop e delle atmosfere lunari e sognanti, e con mia sorpresa sin dal convincente pezzo in apertura, una “Easy” dai tocchi mirabili e cangianti, Joana saprà condurmi col suo disco in un meraviglioso viaggio onirico, dove però non mancano i contatti ravvicinati con la realtà di tutti i giorni, con le sue gioie e paure annesse.
Sia che venga assecondata la variante Mazzy Star (nella dolcissima “Hotel Room 609”), sia che si accelerino lievemente le dinamiche, nella mid-tempo “Pictures” (tra le migliori del lotto), la scrittura rimane sciolta e personale, mentre dal punto di vista musicale si viene inghiottiti da una spirale abbagliante, in cui ci passano davanti istantanee quotidiane (“These Roads”, di un’eleganza sopraffina) e che non lesinano in romanticherie ben confezionate, come nella paradigmatica “You’re with Me Everywhere I Go”, col suo splendido finale in odore di shoegazer.
Se da una parte Joana si mostra a suo agio sia nei momenti più intimi (nella conclusiva “Wild Beast” che riannoda i fili musicali col recente passato acustico), che in quelli più vivaci (vedi la briosa “Demonds”, con echi dei Sundays di Harriet Wheeler, mirabile vocalist a cui somiglia parecchio), occorre però sottolineare a conti fatti l’assenza di un vero pezzo trainante, di quelli in grado di fare la differenza ed elevare tutto il disco.
Nonostante ciò, vale comunque rimarcare una volta di più la bontà di “Hardcore from the Heart”, capitolo che è riuscito a far brillare l’indubbio talento della sua autrice.