Un anno fa, di questi tempi, in redazione per gioco già si cominciava a fare un bilancio della prima parte di stagione, e ognuno di noi aveva chiaro quali fossero i propri ascolti “del cuore”.
Nel mio caso, in ambito italiano, non avevo remore a indicare come miglior album quello di un cantautore emergente, Davide Sellari, in arte Olden, la cui storia oltretutto mi incuriosiva, dopo averlo conosciuto in occasione della rassegna del Premio Tenco l’inverno precedente, nel novembre del 2019.
Di lì a poco l’artista umbro, ormai da molti anni trasferitosi in Catalogna, avrebbe dato alla luce “Prima che sia tardi”, di cui scrissi in toni entusiastici.
A distanza di un anno e poco più, Olden non avendo avuto la possibilità di promuovere in tour adeguatamente, causa pandemia, quel prezioso lavoro che non suona sbagliato definire concept, ha pensato di sfogare subito la sua voglia repressa di musica mettendosi all’opera su nuove canzoni.
Ancora col sodale Flavio Ferri al suo fianco, col quale l’intesa artistica è totale, le numerose idee si sono velocemente concretizzate, cosicchè il materiale raccolto era sufficiente a comporre un disco nuovo di zecca, di quelli che, verrebbe da dire, è nato da una sincera urgenza, visti i tempi cui siamo sottoposti.
“Cuore nero” si discosta musicalmente dal suo predecessore ma, ascolto dopo ascolto, assimilato per bene, va molto vicino a eguagliarlo per valore e peso specifico nel contesto della moderna canzone d’autore italiana, di cui a ragione il buon Davide risulta essere un credibile esponente.
In un primo momento si potrebbe constatare come si senta maggiormente la mano di Ferri in cabina di regia: il lavoro sui suoni è infatti al solito encomiabile, ma questa volta colui che chiamare ex Delta V è riduttivo (basti ricordare l’accoglienza che avevamo dato su queste pagine al suo ultimo disco solista) ha contribuito anche in fase di scrittura, co-firmando tre dei migliori brani del lotto, tra cui l’intensa title track posta in apertura di scaletta.
Ciononostante sarebbe ingiusto nei confronti del titolare di questo disco non sottolinearne la paternità , in quanto ogni scelta stilistica è stata condivisa e vissuta, e la direzione musicale più noir e dark ben si addice in fondo al mood generale del disco e al messaggio ivi contenuto.
Dicevamo di “Cuore nero”, il brano eponimo che conferma appieno la bontà espressiva del Nostro, con liriche poetiche e crude insieme, sorrette da un andamento sonoro marziale: un ottimo “benvenuto” all’ascoltatore che voglia approcciarsi nel modo corretto a questo album.
Il lirismo permane su alti livelli qualitativi con la successiva “Un figlio solo”, marchiato da abiti elettronici scuri e glaciali, quasi come se il fantasma di Robert Smith (versante “Disintegration”) avesse fatto capolino negli studi; a seguire ecco uno dei cosiddetti brani “forti”, vale a dire “Per diventare un fiore”, le cui parole agrodolci deflagrano in un appassionato e viscerale ritornello nel quale Olden rimanda vocalmente un po’ a Manuel Agnelli.
Pur non essendo in modo inequivocabile collegate fra le loro le varie tracce, il senso di comunanza che le pervade è rappresentato da un’atmosfera che rimane per tutta la durata del disco suggestiva e obliqua, con sprazzi di luce a fare capolino ogni tanto.
Se l’evocativa “Ari la donna cigno” sembra voler riallacciarsi allo stile del disco precedente, due sono i momenti cruciali e altamente iconici dell’intera opera: “Oceani” e “Le nostre vigliacche parole mancanti”.
Entrambe veicolano un forte senso di dolore e amara consapevolezza, ma declinati in modo differente, laddove la prima si avvale di versi struggenti quali: “Per una volta guardami/come si guardano gli oceani/troppo grandi/troppo grandi per comprenderli/li puoi vedere ancora/li sai vedere ancora o no?”, mentre la seconda accentua i toni cupi, quasi apocalittici, grazie anche alle parole cariche di pathos interpretativo di un ospite d’eccezione come Pierpaolo Capovilla, uno dei veri intellettuali del rock tricolore.
Detto ciò, come ogni buon disco che si rispetti, anche “Cuore nero” contiene al suo interno un brano apparentemente più lontano degli altri dal focus narrativo, ma in realtà ad esso pienamente aderente e con una sua specificità che anzi lo fa risaltare in mezzo ad altre gemme.
A mio avviso infatti è proprio “Rinascere altrove” la perla nascosta, con le sue dolci e malinconiche note di pianoforte ad accompagnare parole dense di significato e che arrivano al cuore (intonate magnificamente dal suo autore) con tutta la loro potenza: “Che a volte morire è un dovere/se non puoi più respirare/e che bruci in un incendio il dolore/per rinascere altrove”.
Olden ha fatto di nuovo centro e, album dopo album, sempre più sta mostrando una chiara identità musicale e una personalità ben a fuoco: se il pubblico non è (ancora) pronto per accogliere una proposta del genere, che punta decisamente più alla sostanza che alla forma, è un altro indice che alla fine paga ogni volta di più il semplice disimpegno.
Coloro che però sono ancora alla ricerca di qualcosa che li emozioni, potrebbero imbattersi in grandi sorprese mettendosi all’ascolto di queste nove canzoni, ne sono sicuro!
(Siamo soliti nelle nostre recensioni allegare il link per un ascolto su Spotify, ma nel caso di questo album, come di altri usciti sotto egida Vrec Label, per una politica editoriale della stessa già in atto da qualche tempo, verranno condivisi nelle piattaforme di streaming soltanto episodi singoli ma non gli interi album, proprio al fine di valorizzarli, dando così dignità all’ascolto di progetti artistici di alta caratura).