Iniziamo subito facendo un plauso ai Deafheaven che, a dieci anni esatti dall’uscita del debutto “Roads To Judah”, continuano ad avere la voglia e il coraggio di esplorare, sperimentare e cambiare. Chiunque altro, al posto loro, si sarebbe accontentato di ripetere a pappardella la fortunatissima formula di “Sunbather” ““ disco oltremodo osannato dalla critica che, contro ogni previsione, ha concesso alla band di George Clarke e Kerry McCoy di conquistare migliaia e migliaia di devoti fan sparsi in ogni angolo del mondo. Un risultato davvero stratosferico se consideriamo lo strano “piatto” proposto dai nostri nel non troppo lontano 2013: un mix denso e intriso di emozioni tra sonorità black metal, post-rock e shoegaze.
E cosa resta oggi della speziatissima ricetta della casa? Praticamente nulla. Con le nove tracce di “Infinite Granite”, quinta fatica in studio, i Deafheaven danno il definitivo addio alla musica estrema per dar maggior risalto a quegli elementi melodici che, seppur già rilevanti nel recente passato, diventano adesso totalmente protagonisti della scena.
Un album al tempo stesso accessibile e complesso. La mano “morbida” del produttore Justin Meldal-Johnsen (ex bassista di Beck e Nine Inch Nails), infatti, non smussa totalmente gli angoli del sound dei Deafheaven che, anche se in forme nettamente diverse, resta potente, intenso e pregno di pathos.
Tra il minutaggio decisamente abbondante dei brani e i frequenti richiami al post-rock più maestoso e d’impatto, il quintetto di San Francisco non fa davvero nulla per contenere la propria grandeur. Un’onda infinita di emozioni che scorre fluida e limpida tra le atmosfere sognanti di canzoni curiosamente radio-friendly come “Shellstar”, “In Blur” e “Great Mass Of Color”, e non si scontra più contro quel muro black metal che, fino a non troppo tempo fa, era quanto di più caratteristico avessero da offrire i Deafheaven.
è la violenta delicatezza dello shoegaze, vera colonna portante dell’opera, a spazzare via i blast beat e le chitarre in tremolo picking cui eravamo abituati. Dietro il microfono, George Clarke è quasi irriconoscibile: la sua voce vellutata e cullante si scioglie come miele tra i riverberi e le distorsioni delle chitarre ultra-effettate di Kerry McCoy e Shiv Mehra. Le screaming vocals riemergono quasi dal nulla solo per brevissimi frangenti in “Villain” e “Mombasa” ““ a parere del sottoscritto, i due brani migliori del disco.
E qui sta il problema principale di “Infinite Granite”: convincere appieno solo quando, sporadicamente e timidamente, prova a creare un ponte con il passato dei Deafheaven. L’impressione generale è che la rivoluzione stilistica sia stata troppo repentina e drastica; la band non è ancora riuscita a elaborare realmente le numerose novità introdotte, limitandosi quindi a riciclare una serie di clichè moderni del post-rock e dello shoegaze per poi calarli in un “calderone” simil-alternative che, sotto la magniloquenza e la levigatezza di un Wall of Sound asfissiante e “da stadio”, sembra esser stato costruito esclusivamente per rendersi più appetibili alle orecchie del grande pubblico.
Tempo di svolta mainstream in casa Deafheaven? Direi che è praticamente certo. Sono però troppi gli aspetti da rivedere e migliorare in questa fase di transizione. Un piccolo passo indietro in termini di originalità e qualità per un lavoro in parte interessante, in parte deludente. La fiducia per il futuro, comunque, resta alta: il nuovo percorso artistico potrebbe presto riservarci piacevoli sorprese. Per il momento, siamo in un buon stato embrionale.