Ci sono poesie fatte di strofe e di versi, di parole che scivolano via, lasciando una profonda eco nelle nostre menti e nei nostri cuori ed altre, invece, che hanno dentro di sè qualcosa di fisico e corporeo, qualcosa che riesci a percepire solo in determinati luoghi, quando qualcuno dotato di particolare sensibilità – un artista, magari una blues-woman – rende nuovamente visibile quella lucente magia che non si era affatto spenta, ma era semplicemente caduta in un abisso caotico di quotidianità ; una quotidianità scandita da impegni, da obblighi, da appuntamenti, da divieti, dalla frenetica ordinarietà che consuma le nostre migliori energie, oltre che il nostro inestimabile tempo.
Akina McKenzie, ieri sera, ha riportato in superficie questa fulgida poesia, l’ha lasciata scivolare lungo le silenziose scale che fissano, sornione, il Buatt Arte & Bistrò di Eboli e la piazzetta nella quale – in una serata mite di fine estate – l’artista americana ha sacrificato e bruciato la sua preziosa luce alla luna ed ai diavoli del blues, suonando e cantando quel viaggio, intriso di folk, country, soul ed ovviamente blues, che è l’essenza della sua vita. Un inno all’esistenza, dunque, che non dimentica, però, le complicazioni inattese che possiamo trovare lungo il cammino, i nostri probabili errori, le nostre piccole e grandi mancanze; aspetti, che sono, allo stesso tempo, negativi, ma anche fortemente costruttivi; sono essi, in fondo, a donare alle sonorità di Akina un velo di oscurità e di malinconia, nonchè il sapore acido e desertico delle ballate psichedeliche tipiche degli Sessanta.
Un concerto che si muove nel tempo e nello spazio, capace di connettere luoghi diversi tra loro – un incrocio polveroso nel cuore dell’America, il deserto assolato della California, il cuore antico della cittadina campana, gli inquietanti crateri lunari – spostandosi avanti ed indietro nel tempo, senza mai spezzare il legame emotivo con le persone presenti, dando voce a tutto ciò che, spesso, preferiamo, per semplicità o per paura, nascondere dentro di noi, rendendo sempre più aride, scomode, anguste le nostre coscienze. Il messaggio dei suoi lavori, dell’ultimo “The Black Phoenix”, ma anche del precedente “Miracle Man”, è, appunto, quello di rendere un po’ più spaziosa, ampia, accogliente, empatica la nostra anima; un messaggio che ha in sè, al di là dell’impatto emotivo ed individuale dei singoli ascoltatori, anche una forte e potente connotazione politica e sociale.