Qualunque sia il vostro rapporto con la musica o il vostro genere di riferimento, nelle ultime settimane avrete inevitabilmente sentito parlare di “Donda”, l’ultimo progetto di Kanye West. Perchè sì, nonostante l’album sia solo l’ultima vittima di una storia discografica già frastagliata e problematica, fatta di annunci precoci e progetti mai rilasciati, esso è riuscito a polarizzare l’attenzione dei social media in modo unico. E parlo di ciò perchè “Donda” è anche questo: i cambi di nome, i leak, i rimandi, l’hype, i dissing, i listening party e le livestream; “Donda” è un prodotto tanto quanto un’opera, allo stesso modo in cui Kanye è tanto artista quanto personaggio pubblico e queste due parti della sua vita, come vasi comunicanti, si sono sempre alimentate a vicenda, al punto tale che credo sia impossibile pensare o valutare il progetto senza il contesto di fenomeno mediatico che ha creato.
Similarmente a “Jesus is king”, “Donda” è un album gospel eppure, laddove il primo era uno sbrigativo ed incompiuto risveglio spirituale, il secondo è invece un altalenante seppur convincente massiccio omaggio sia a Dio, che alla madre dell’artista. Il progetto inizia lentamente: le produzioni riescono ad evocare un’aura di solennità pur rimanendo minimali, sonorità basse scandite da uno uso conciso delle batterie e dei bassi ricreano le atmosfere di “808s& Heartbreak” (es. in “God breathed” e “Jonah”).
Gli scenari Hip-Hop e trap iniziali lasciano sempre più spazio al gospel: in un LP come questo, in cui la sacralità è trasmessa dalle voci, si passa dall’afflitta prostrazione nei riverberi, vocoder e adlibs di cui Kanye e Vory fanno uso alle voci del Sunday Service Choir. La lunghezza delle tracce si asciuga in maniera irregolare a dimostrazione che siamo di fronte alla disordinata composizione finale di un progetto che ha visto decine di modifiche. La tracklist di “Donda” è tanto variegata quanto scomposta e non è difficile individuare dei momenti dove i limiti artistici dell’autore e la sua visione disorganizzata mancano il bersaglio: si prenda ad esempio “Remote control” dalla melodia dissonante e quasi fastidiosa che si mette nel mezzo ai ritmi più lenti raggiunti nella metà del disco, o anche “Tell the vision”, sample dell’omonima canzone postuma di Pop Smoke che serve come interludio alla parte finale del disco ma si dimostra soltanto un discutibile tributo miseramente prodotto.
Nonostante questo l’album non si scompone, forte di alcuni delle canzoni più brillanti che West abbia scritto negli ultimi 5 anni come “Off the grid”, un frenetico inno di battaglia urbano, “Heaven and Hell”,un crescendo elettronico e lirico che ricorda il pathos della hit storica “POWER” o “Jesus Lord” una litania di 9 minuti di cui il crudo storytelling fa da padrona. A fare da apice emotivo e musicale del disco vi è la penultima traccia: “Come to life” una piano ballad liturgica che racchiude in sè il lato più umano di “Donda” ovvero la storia di un uomo in conflitto con sè stesso da sempre, in crisi a causa del suo divorzio e della sua salute mentale, che trova nella fede l’unica panacea ai pentimenti di un’intera esistenza.
Ma alla fine di ciò cosa rimane di “Donda”? Un progetto ambizioso, disordinato e a tratti incompiuto, che cade vittima dell’hype e allo stesso tempo se ne alimenta, un prodotto talmente unico, nel bene e nel male, che sarebbe impossibile pensarlo sotto qualsiasi altro nome. Più di ogni altra cosa “Donda” resta il tributo d’amore di un figlio in lutto. Un prodotto capace di creare un fenomeno mediatico e una moderna opera religiosa contenente tanti tra i nomi più rilevanti dell’Hip-Hop, tutto sotto lo stesso nome di una madre, che diventa allo stesso tempo indissolubilmente un mantra ed un logo.
Credit Foto: Mert & Marcus