Di primo acchito gli otto brani di “The Witness”, quinta fatica dei Suuns, potrebbero sembrare assai meno cervellotici e astrusi di quanto prodotto precedentemente dalla band canadese. Le atmosfere del disco sono quasi sempre serene, placide e, a tratti, persino rilassanti; non vi è traccia dell’angoscia e del nervosismo che in larga parte animavano le note di “Felt”, l’ultimo full-length realizzato prima del parziale addio di Max Henry ““ passato dall’essere membro stabile della formazione a semplice collaboratore in studio.
Il rinnovato trio di Montreal, che continua imperterrito il suo viaggio lungo la via dell’avant-garde rock più minimalista e sperimentale, trattiene gli impulsi ““ o, per meglio dire, la voglia di strafare ““ ed elimina tutti gli elementi in eccesso. La formula finale risulta essere effettivamente più leggera, ordinata e accessibile rispetto a quella adottata per il penultimo lavoro pubblicato nel 2018.
Poniamola in questi termini: “The Witness” è il fratello buono di “Felt”. Dietro la voce robotica e perennemente effettata di Ben Shemie si cela un fortissimo senso di umanità ; potremmo addirittura parlare di un desiderio di tenerezza – tenuto difficoltosamente a bada dai quintali di elettronica che, come al solito, ammantano la musica dei Suuns.
L’album, nonostante l’evidente operazione di snellimento, non è di facile ascolto e richiede un bel po’ di pazienza e attenzione per essere assimilato. Il sound caldo, avvolgente e ad altissima definizione, tuttavia, è un ottimo incentivo per provare a immergersi in questi trentotto minuti di melodie aliene e ritmi ultraterreni, concepiti come un unico, interminabile flusso sonoro che inizia e finisce con il gentile frinire delle cicale.
Nel mezzo c’è un mondo da scoprire che alterna vorticosamente discese infernali e risalite celestiali. I paesaggi da incubo digitale delle ossessive “Witness Protection” e “The Fix”, entrambe sostenute dalle eccellenti prestazioni del batterista Liam O’Neill, si sposano alla perfezione con i sapori industrial della ruvida “C-Thru”, che scorre via tra il cupo pulsare del synth-bass e il fragore di distorsioni sature e ronzanti.
Di tutt’altra pasta le delicate ma al tempo stesso dense “Timebender”, “Clarity” e “Go To My Head”, in cui i Suuns stupiscono con elegantissimi intrecci tra ambient, jazz, trip hop e field recordings in cui tutto ““ ma proprio tutto ““ fa brodo: dal cinguettio degli uccelli a suggestive armonie di twin guitars, passando ancora per malinconicissimi assoli di sax frammentati e ricompattati e lampi del pop più limpido e rassicurante.
Le lunghe e complesse evoluzioni sonore alla base di “Third Stream” e “The Trilogy”, sorprendenti perchè capaci di dare un senso a un discorso che unisce in chiave ultramoderna barlumi di art, kraut, progressive e psych rock, raccolgono tutto il meglio di un disco difficilmente digeribile ma estremamente raffinato. E soprattutto pregno di emozioni ““ quasi una novità in casa Suuns. Gustatevelo con calma e sangue freddo e non sarete delusi.