Trent’anni fa i Talk Talk di Mark David Hollis pubblicarono “Laughing Stock”, degno successore di quel capolavoro che risponde al nome di “Spirit of Eden”, e anche se all’epoca pochi potevano immaginarlo, sarebbe stato proprio questo il testamento artistico della band.
Ormai proiettati su un’altra dimensione artistica, lontani dagli accecanti riflettori che si erano posati su di loro negli album della fase “commerciale” (culminati in singoli divenuti evergreen quali “Such a Shame” e “It’s My Life”), il quartetto, fresco di rottura con con l’etichetta EMI (che, come da consuetudine, pensò bene di pubblicare un best of e un album di remix a ridosso dell’uscita del nuovo disco, il primo sotto egida Verve Records) condensò ogni idea e suggestione, premendo ancora forte sul versante della sperimentazione.
D’altronde era una condizione a quel punto inevitabile, l’unica via percorribile per Hollis, il batterista Lee Harris e il tastierista Tim Friese-Greene, qui anche in veste di produttore (lo storico bassista Paul Webb gettò invece la spugna agli inizi del 1991 e non partecipò alla realizzazione di “Laughing Stock”), intenti com’erano a scardinare i confini ristretti del pop (o synth-pop, di cui furono tra gli alfieri nella prima metà degli anni ottanta) per trasmetterci il più intatta e incontaminata possibile la loro arte.
E’ musica che scorre fluida, libera, che accompagna come in un viaggio onirico l’ascoltatore tra cadute negli abissi e ascesi celestiali, che commuove e scuote, incanta e protegge, circonda e ti aggira, si nasconde e poi fluttuante e lieve riappare a donare nuovamente linfa e conforto.
La voce di Mark Hollis, così iconica e riconoscibile, diventa parte di un tutto, senza prevaricare il tessuto sonoro: ci giunge a piccole dosi, talvolta strozzata, altre invece limpida e rassicurante ma sempre con l’intenzione di non catalizzare troppo l’attenzione su di sè, piuttosto inducendoci all’ascolto attento di parole che arrivano dirette e fulminee, piccole istantanee di stati d’animo, di vissuti, di pezzi di racconto lungo una vita.
E col senno di poi viene facile comprendere in che misura quelle parole fossero così autentiche, tali da fermare il tempo, inchiodare un pubblico non più abituato ai ritornelli facili e orecchiabili, ma desideroso di capire cosa animasse il nostro protagonista.
Hollis infatti da tempo non si riconosceva più nel music business, forse nemmeno nel suo ruolo di star, di artista che doveva dare delle risposte, indicare una strada.
Tuttavia, in maniera forse inconsapevole, un modus operandi inedito e differente con il suo gruppo “chiacchierone” lo aveva trovato per davvero, ponendo le basi per tanti generi e sottogeneri che si sarebbero sviluppati di lì a poco, a partire dal cosiddetto post-rock.
La forma canzone perde quindi i suoi contorni, si destruttura, si veste con elementi presi dal jazz, dall’ambient (quando il termine non era ancora codificato), persino dal blues (vecchia passione del Nostro) e dalla classica, prova ne è la copiosa line-up di strumentisti, arruolati a tradurre con il suono delle viole, del violoncello, di contrabbassi e percussioni, di clarinetti e trombe, tutto il magma interiore del gruppo e del suo autore principe in particolare (Hollis firmerà tutte le sei tracce del disco in solitaria, eccezion fatta per la dilatata, ipnotica e obliqua “After the Flood”, scritta e composta insieme a Friese-Greene).
Tutti gli episodi che compongono questo frullatore di emozioni sono connotati di intensità e di spessore autoriale, veicolate da arrangiamenti vari e raffinati che mettono in risalto via via, a seconda delle urgenze espressive, il versante più etereo e quello più terreno, sublimando con esiti sempre ragguardevoli il senso di ogni intervento.
L’iniziale “Myrrhman” in tal senso è paradigmatica e conferisce, con i suoi toni spirituali e versi criptici e oscuri, grande solennità al tutto, in un brano a-materiale fatto di silenzi e vibrazioni; ben diverso appare l’orizzonte nella successiva “Ascension Day” che, da titolo, trae linfa da una strumentazione più robusta e caratterizzante per spingere i nostri propositi verso alte vette inesplorate. La batteria jazz di Lee Harris suona un ritmo marziale su cui si armonizza un apparato musicale articolato e multiforme, segnato da un climax strumentale veemente.
“After the Flood” amplifica la componente elettronica, che con una certa difficoltà però riusciamo a decifrare come parente di tante illustri canzoni del catalogo dei Talk Talk passate ai posteri: in questo caso le testiere, arricchite da percussioni e dagli inserti dell’inconfondibile organo Hammond (suonato in maniera magistrale da Hollis), disegnano uno scenario caustico ma delicato al tempo stesso, e non suona arduo pensare che i Radiohead abbiano avuto nelle orecchie questo album per realizzare alcuni dei loro titoli più celebrati.
Arrivati a metà dell’opera, dopo una traccia ricca di ombre e luci inoltratasi in un sentiero lungo nove minuti e ventisei secondi, ci si imbatte in un’altra tappa obbligatoria affinchè “Laughing Stock” possa essere percepito in tutta la sua grazia: “Taphead” è minimale, vagamente sinistra e indubbiamente rarefatta, dove poche note, scarne e poco percettibili, fanno da guida al nostro ascolto calandoci (ancora una volta) in angoli anfratti del nostro inconscio, dove poterci perdere in riflessioni e immagini remote ma ancora pregne di significato.
E’ il preludio alla canzone (termine che, avrete capito, pare improprio se rapportato alle tracce qui presenti) più emblematica e “compiuta” dell’intero disco, vale a dire “New Grass”, che dipanandosi senza regole e steccati – sfiorando i dieci minuti di durata complessiva – , ci fa sobbalzare il cuore con un connubio eccezionale di testo e musica, in grado di accentuare una componente mistica che, seppur a tratti sottesa, in realtà permea ogni momento.
L’atmosfera delineata è quella della pace interiore tanto agognata e finalmente raggiunta, tratteggiata dal canto dimesso eppure meravigliosamente melodico di Hollis, e dalle paradisiache note del pianoforte.
Il finale con la notturna e placida “Runeii” non ha bisogno di aggiungere alcunchè e preferisce perciò assecondare quanto indirizzato in precedenza dalle sue “tracce sorelle”, cullandoci anch’essa in un non-luogo, contornato da silenzi in questo caso non oppressivi in cui fanno capolino puntuali note di chitarra blueseggianti e fiabesche.
Fine del viaggio, fine di un’avventura clamorosa iniziata a livello discografico nemmeno dieci anni prima e capace in poco tempo di segnare distintamente un’epoca, incantando oggi come allora.
Certo, fa specie, riascoltando ancora adesso “Laughing Stock” a distanza di trent’anni tondi dalla prima volta, che la band sia riuscita a evolversi in maniera così drastica e repentina rispetto ai primi vagiti musicali intessuti nel mood dell’epoca.
Eppure quel cambiamento, che è somigliato più a una vera rivoluzione, fu assolutamente spontaneo e proprio per questo semplice da attuare, visto che i Talk Talk (e la loro mente creativa in primis) volevano solamente essere se stessi, senza filtri e condizionamenti.
Talk Talk ““ Laughing Stock
Data di pubblicazione: 16 settembre 1991
Tracce: 6
Lunghezza: 43:29
Etichetta: Polydor/Verve Records
Produttore: Tim Friese-Greene
Tracklist
1. Myrrhman
2. Ascension Day
3. After the Flood
4. Taphead
5. New Grass
6. Runeii