Il disco d’esordio di Lanzafame drummakkine (alias Marco Donelli) è quantomeno anomalo, specie se rapportato al pop (non più indie) che costella ciò che resta dell’attuale mercato discografico italiano.

E questo lo specifichiamo con una valenza positiva, perchè succede sovente che, fermandosi a un primo ascolto (ok, non si dovrebbe di norma fare, ma tant’è, a volte è solo per farsi una prima idea) sia invero complicato riscontrare sostanziali differenze nelle varie proposte. Capita(va) anche con l’altro fenomeno musicale contemporaneo, la trap, ma, come vale in fondo per ogni cosa, occorre poi inoltrarsi e approfondire per comprendere appieno le reali intenzioni (e coglierne eventuali intuizioni) di un’opera.

Ecco, un disco come “Torino è in Piemonte”, invece, esula sin dal principio da questo ragionamento, in quanto assume presto, dalle sue prime note, una connotazione personale che lo fa distinguere dalla massa, non volendo cavalcare nessuna onda e cercando piuttosto una propria via.

Lanzafame, pur apparendo un “progetto” in divenire, tuttavia è già  un artista che ha un suo reale perchè, e pian piano è capace di stuzzicare la fantasia e di incuriosire.

E’ di fatto un debuttante (con questo moniker almeno) ma ha alle spalle una storia solida, costruita tra Bologna, dove è nato e dove ha iniziato a suonare con i #divanofobia, e Torino, dove illuminante è stato l’incontro con Gabriele Pacelli, a cui ha fatto sentire le bozze già  definite dei brani che avrebbero poi composto questo album.

Sono otto in tutto quelli alla fine inseriti in scaletta e contengono al suo interno degli aspetti dicotomici, in riferimento soprattutto ai testi delle canzoni e alle rispettive atmosfere evocate.

C’è una leggerezza formale infatti che contiene in se’ una certa profondità , a volte celata altre invece ben manifesta, la quale si rispecchia anche a livello musicale, con il binomio Donelli-Pacelli che, in fase di limatura, registrazione e “vestizione” (in arrangiamenti policromi segnati da un’elettronica vintage mai invasiva e preminente), da’ vita a quadri esistenziali dove lo sguardo del protagonista non è mai troppo rivolto su di sè, ma si allarga al contempo su ciò che gli gravita attorno, scrutandolo e riflettendo.

L’ironia è ben presente e mescola sovente le carte in tavola, col rischio così di confondere chi ascolta, però man mano che si procede sembra evidente come pure la parte vagamente demenziale, o meglio sarcastica, sia funzionale a far emergere la ricca personalità  del suo autore.

Le tracce apparentemente sembrano viaggiare slegate e questa sensazione perdurerà  fino alla fine, eppure ci si accorge che il filo conduttore è uno solo, vale a dire il punto di vista di Lanzafame che, come detto, può indurre all’introspezione oppure lanciarsi in puntigliose invettive (mediante però una certa vis poetica).

Emblematici di questi due poli narrativi sono l’iniziale “L’intervista” che, a fronte di un ritmato e pimpante arrangiamento in odor de “La voce del padrone” (giusto per scomodare subito i mostri sacri, sperando di non sembrare profani), presenta spunti interessanti vicini a certa moderna canzone d’autore; mentre su un altro campo il Nostro si addentra nella descrizione per immagini di “Muccioli”, lasciando poco spazio a interpretazioni.

Ci sono anche episodi spiazzanti come “Ken Parko”, caratterizzata da uno stile favolistico che può rimandare alle cose migliori di Tricarico (e qui citiamo non a caso un cantautore sui generis, a proposito di gente anticonformista), e la suggestiva “Speed” che mostra un autore maturo e consapevole, fin dal persuasivo incipit: “Non importa se pensi a qualcosa dove hai speso fallito/concretizzare/basta una frase per far finta di non essere in te…”.

Ondivago e misterioso, capace quando occorre di non prendersi troppo sul serio (pensiamo alla bizzarra “Le seghe mentali dell’Orso Grizzly”, all’insegna di un ficcante synth-rock) ma in possesso altresì di tocchi di genialità  e di sprazzi di feroce lucidità  (“La tua superficialità  distorce il mio intestino/sono convinto già  che mi hai dimenticato…” nell’amara “Detesto”), a conti fatti,   il cantautore bolognese ha realizzato un primo lavoro il cui principale pregio è di essere semplice e complesso al tempo stesso.

Peccato che il tono monocorde delle interpretazioni renda l’insieme un po’ piatto a livello emozionale ma ci sono elementi che fanno ben sperare per la crescita artistica di Donelli, e piace anche il recupero di un brano atipico di Lucio Dalla, una paradigmatica “Mela di scarto” (dal capolavoro “Anidride Solforosa”, del florido periodo col poeta Roversi), qui resa davvero in modo gradevole e convincente.

Non posso sbilanciarmi fino a tanto nel presupporre una sua evoluzione, ma già  che in una recensione abbia tirato in ballo Battiato e Dalla significa intravedere, da parte mia, come minimo del potenziale.

Credit foto: Eleonora Lima