Album dopo album, il compositore bretone Yann Tiersen sta cercando di smarcarsi dal facile, quanto scontato, accostamento con il film “Il favoloso mondo di Amèlie”, scegliendo in modo naturale di assecondare la sua inclinazione più sperimentale.
Da un punto di vista meramente critico viene facile affermare che abbia agito nel migliore dei modi: basta averlo seguito negli anni a venire infatti per comprendere quanto nella sua arte ci fossero in realtà molte più suggestioni e inclinazioni di quelle, già di per sè mirabili, contenute in quel fortunato film d’Oltralpe che seppe conquistare copiose fette di pubblico in tutto il globo, Italia compresa.
Vale però anche il rovescio della medaglia: quanto contribuirono quelle musiche così sognanti, malinconiche, magiche, raffinate e coinvolgenti al successo del film? A mio avviso molto, giocoforza quindi ci fosse un pericolo concreto di doversi sentire quasi in “obbligo morale” di seguire un filone più o meno similare.
Invece Tiersen ha voluto presto esplorare territori inediti, rinunciando anche a tutti quei magnifici orpelli sonori che ne avevano definito uno stile cangiante ed estremamente vivace.
Il mondo del cinema è quanto di più congeniale all’esperienza artistica del Nostro, capace com’è di imprimere suoni, melodie e il mood adatto ogni volta che una situazione particolare lo richieda; tuttavia, l’alchimia che è in grado di instaurare tra musica e immagini quando si tratta di omaggiare o rappresentare la propria Terra è pressochè ineguagliabile.
Ne fu già una prova il magnifico “Eusa”, dedicato ai luoghi dell’isola eponima, uscito cinque anni fa, e la conferma ci arriva con “Kerber”, disco che accompagna il film relativo uscito a fine agosto e che ancora una volta ci proietta anima e spirito in quello spicchio del creato dove Tiersen ha scelto di vivere e di dedicarvisi.
Non occorrono acrobazie strutturali e arrangiamenti magniloquenti ed epici per trasmetterci l’atmosfera che si respira nell’isola, l’autore lavora per sottrazione, puntando decisamente più sull’insieme che non sui singoli spunti, declinando taluni guizzi creativi che lo avevano reso celebre, in favore di un’atmosfera di fondo che ci giunge rarefatta e che amplifica così il concetto di mistero.
Sono sette i tasselli che compongono questo affascinante puzzle, quasi del tutto privi di quello struggente romanticismo che ci si potrebbe aspettare ma in ogni caso in grado di veicolare emozioni intense e mutevoli.
Dopo un uno-due in apertura all’insegna del minimalismo sonoro, in tracce (la placida e notturna “Kerlann” e la più obliqua “Ar Maner Kozh”) che non suona sbagliato associare a certa avanguardia o a inafferrabili scenari ambient, le porte della percezione si aprono minuziosamente e senza far rumore nella delicatissima “Kerdrall” (dove riecheggiano echi di Sigur Ros), preludio dell’episodio più programmatico dell’intero lavoro, intitolato “Ker Yegu”.
E’ qui che il protagonista, e l’ascoltatore con lui, si sente rappacificato e in sintonia con il mondo circostante, è dove si avverte l’abbraccio materno della propria terra d’adozione, nonostante il finale del pezzo lasci al contempo un piccolo senso di inquietudine, facendoci avvolgere dalle tremolanti note elettroniche.
Nonostante il pianoforte sia indubbiamente anche qui l’artificio più consono per tradurre sensazioni profonde in qualcosa di tangibile, è da riscontrare come anche gli strumenti elettronici, dai tocchi gentili e non invasivi, siano fondamentali allo stesso modo nella creazione di questo disco.
Pensiamo ad esempio alla gamma di stati d’animo fatti emergere in superficie dalla ricchezza sonora di “Ker al Loch” o alla tavolozza sognante della title track, che si dipana libera e leggiadra per oltre dieci minuti di durata.
Giunti in chiusura, Yann Tiersen ci regala un’altra perla, stavolta sì di stampo cinematografico: “Poull Bojer”, con la sua andatura circolare che sembra farci perdere in varie elucubrazioni ma che infine conduce a un approdo sicuro, che facilmente chiameremo “casa”.
Il musicista francese è riuscito con “Kerber” a trasmetterci ancora di più il suo mondo, in un’opera che non offre svolazzi effimeri e che magari non ti fa sussultare il cuore, ma che è specchio fedele e autentico del suo ideatore, uno che si trova, grazie a innegabili meriti, nella felice condizione di non dover dimostrare niente a nessuno.
Credit Foto: Richard Dumas