Nero o bianco? Etero o gay? Crede in Dio o solo ed esclusivamente in sè stesso? Il Prince di “Controversy” è un ventitreenne confuso, ambiguo e indecifrabile. Ma è anche un artista dalla creatività incontenibile, che ama esibirsi dal vivo ““ il più delle volte vestito solo di mutande e impermeabile ““ e ancor di più rinchiudersi negli studi di registrazione. Luoghi a metà strada tra il magico e il sacro, dove metter le mani su qualsiasi tipo di strumento musicale, dilettarsi con i prodigi del multitraccia e dar vita a un sound originale e meticcio che fonde elementi di pop, rock, funk, R&B e new wave.
Nel suo quarto album, la fortunata ricetta alla base dei capolavori “1999” e “Purple Rain” è ancora un po’ troppo acerba per poter esser gradita ai difficili palati del grande pubblico: troppe stravaganze, poca dimestichezza con i canoni del mainstream e, dulcis in fundo, testi così osceni da oltrepassare i confini dell’oltraggioso.
Prince nel 1981 è poco più che un ragazzino e, come è giusto che sia, ha solo una cosa in mente: il sesso. Per lui l’amor carnale ha un valore quasi mistico; il piacere fisico non è racchiuso nella parentesi dell’orgasmo, ma è uno strumento attraverso il quale trascendere la realtà materiale e raggiungere nuovi livelli di sublime goduria. Una chiave per liberare il corpo – come ci viene detto nel ritornello della spumeggiante “Sexuality” – e riscoprire quell’innato spirito selvaggio troppo spesso nascosto agli occhi della moderna società occidentale, pudica e austera, per la quale la naturalezza è un pericoloso sintomo di maleducazione.
Prince è uno sfacciato: a lui non frega assolutamente nulla dei pruriti dei puritani. Lo definiscono rude? E lui, nella monumentale title track, risponde a tono: I wish we all were nude/I wish there was no black and white, I wish there were no rules. Nessun vestito addosso, nessuna odiosa discriminazione razziale e, soprattutto, nessuna regola. Il groove dei brani di “Controversy” è così bollente da far cadere la legge dell’uomo e sciogliere i freni inibitori.
Tra le note lascive e lussuriose di “Do Me, Baby”, una lunga e lenta ballad R&B dominata dal caratteristico falsetto princiano che tutti ben conoscono, il polistrumentista di Minneapolis sprigiona la libido e, da buon infoiato qual è, simula un amplesso con una gentil donzella. Quando si è in compagnia della dolce metà , tutto è più bello e intenso; ma anche da soli ci si può accontentare, come ci viene suggerito ““ in maniera neanche troppo criptica ““ nella zuccherosa “Private Joy”, un vero e proprio inno alla masturbazione in chiave bubblegum pop in cui quel vecchio marpione di Prince si diverte a cantare le lodi del suo pretty toy.
è giusto così: sempre meglio mettere le mani sul proprio giocattolo che sulla valigetta contenente i codici di lancio della bomba nucleare. D’altronde, siamo all’alba degli anni ’80 e i timori per lo scoppio di una guerra atomica sono letteralmente alle stelle. Ne è consapevole lo stesso Prince, che nella divertente “Ronnie, Talk To Russia”, tra una saltellante linea di organo e un assolo di chitarra al fulmicotone, chiede al presidente statunitense Ronald Reagan di aprire un dialogo con la Russia prima che facciano saltare in aria il mondo (Ronnie talk to Russia before it’s too late/Before they blow up the world).
La diplomazia internazionale come arma per sanare instabili equilibri geopolitici: un lavoro un po’ troppo impegnativo per il giovane Prince, che infatti smette subito i panni del mediatore per tornare alla vecchia passione per il funk più coatto e danzereccio con l’irresistibile “Let’s Work”.
Neanche il tempo di chiudere il giro in slap del basso che subito parte la gelida drum machine di “Annie Christian”, un esperimento sonoro difficile da classificare ma ben descritto, all’epoca dell’uscita, da tal R. Anderson sulle pagine della rivista “Sweet Potato”: [“…] un pezzo cupo e inquietante che va a situarsi sul lato oscuro del Sogno Americano [“…] Prince si produce in una specie di recitativo nella sua voce normale, sopra a minacciosi riff chitarristici [“…] e a un ritmo metronomico e ossessivo punteggiato da distanti handclap.
Un gustoso assaggio della rivoluzione alle porte prima dello scoppiettante finale con “Jack U Off”, un pastiche rockabilly/synth-pop dove Prince torna a fare lo sporcaccione e a tessere le lodi dell’onanismo ““ questa volta però inteso nella sua forma più nobile, ovvero quale gioia da condividere insieme a un’altra persona. E allora lasciamoci così, semplicemente ricordando alcuni tra i più dissoluti versi del vate di viola vestito: If your man ain’t no good/Come on over to my neighborhood/We can jump in the sack and I’ll jack you off/If you’re tired of the masturbator/Little girl, we can go on a date/And if you like, I’ll jack you off. Nessuna traduzione perchè siamo una webzine morigerata (il phrasal verb inglese Jack off è il nostro masturbare, naturalmente).
Data di pubblicazione: 14 ottobre 1981
Tracce: 8
Lunghezza: 37:15
Etichetta: Warner Bros.
Produttore: Prince
Tracklist:
1. Controversy
2. Sexuality
3. Do Me, Baby
4. Private Joy
5. Ronnie, Talk To Russia
6. Let’s Work
7. Annie Christian
8. Jack U Off