Di ritorno in Italia per un tour acustico ottobrino di ben 13 date, Steve Wynn si spinge sino alle falde del Vesuvio, regalandoci uno splendido live nella città di Napoli.
Frontman degli immortali Dream Syndicate, band faro del Paisely Underground, Wynn inizia la sua carriera solista nel 1989, con l’intento di ridefinire sè stesso ed esplorare diversi stili musicali. Da quella decisione nascono un ricchissimo trentennio di album solisti ed un considerevole numero di progetti paralleli. Quando scopro dell’evento, non posso non pensare che averlo di passaggio in Italia è proprio una gran cosa.
L’unica tappa del tour acustico dell’artista al sud del paese è un’occasione unica e ghiottissima per tornare ad ascoltare musica dal vivo e farlo, tra l’altro, in una vera e propria sala da concerto. L’evento, organizzato da Rockalvi sotto forma di secret show, ha come location l’incredibile Auditorium Novecento, ovvero il secondo studio di registrazione più antico d’Europa.
Luci soffuse ed un vociare allegro fanno da preludio al concerto. La sala pare al completo ed avvolge pian piano il pubblico in un bozzolo privilegiato, sempre più al di fuori del tempo e dello spazio.
Nessun dietro le quinte da rockstar, Steve Wynn fa capolino tra le file di sedie di plastica disposte in sala per l’occasione. Saluta il pubblico, ringrazia tutti sorridendo pacatamente ed imbraccia la chitarra.
Lo show si apre lentamente, Wynn prende le misure, parla al pubblico, scherza mite ed esegue i primi pezzi, “Tuesday” e “Tears Won’t Help”, quasi come se fossero un giro di prova, tanto per lui, quanto per il resto della platea.
Segue “Follow Me” e si inizia già a percepire un cambiamento di rotta negli animi. Wynn aggiusta il tiro e riesce a sintonizzarsi finalmente sulle frequenze del pubblico. è rispolverando un vecchio pezzo come “That’s What You Always Say”, dei tempi dei The Dream Syndicate, che il cantante conquista e si assicura, finalmente, il cuore degli spettatori per il resto del live.
La serata prosegue fluidamente, con un Wynn in formissima che, desideroso di condividere la propria musica, elargisce sorrisi e concede versioni limpidissime di pezzi che attraversano sinuosamente tutta la sua sfavillante e densa discografia. “Shelley’s Blues, Pt. 2”, “Amphetamine” dal progetto Steve Wynn & The Miracle 3, o anche “Song For The Dreamers”, quest’ultima direttamente dal vecchio duo Danny & Dusty, formato, all’epoca, assieme a Dan Stuart: sono solo alcuni dei numerosi brani eseguiti dal musicista.
Non mancano alcune pepite immortali, ma non scontate, dei vecchi lavori coi The Dream Syndicate, come “Too Little, Too Late”, “Tell Me When It’s Over” e “The Days of Wine and Roses”, che Wynn riesce a reinterpretare acusticamente con abilità e naturalezza strabilianti.
Lo show si conclude con una versione corale di “There Will Come a Day”, in cui Wynn, passeggiando in mezzo al pubblico, chitarra alla mano, coinvolge gli spettatori tra battimani e ritornelli cantati. Prima di uscire dalla sala a passo svelto, il musicista ringrazia ancora una volta, promettendo di tornare l’anno seguente con The Dream Syndicate per il tour celebrativo dei quarant’anni di “The Days of Wine and Roses”.
Sostenuto da applausi ininterrotti, il bis non tarda ad arrivare, chiudendo la serata su una nota ottimista e carica di aspettative brillanti per il futuro.
Così come sul palco, anche post concerto, Wynn non si risparmia con nessuno: discute, sorride, riconosce fan di vecchia data, improvvisa altri due pezzi su richiesta, ringrazia di cuore. Ci chiacchiero anch’io, gli faccio i complimenti per il live, parliamo di New York, di Kendra Smith e di quanto sia bello poter tornare a viaggiare. Ci diciamo a vicenda di essere molto grati di poter condividere questo momento, poi mi autografa un vinile con un pennarello dorato.
Quello di Steve Wynn all’Auditorium Novecento non è stato solo un concerto, è stata una festa intima e preziosa, un ritorno alle radici, ai luoghi di sempre, all’essenza più pura della musica live. Un regalo misterioso al punto giusto, una perla notturna a lungo attesa, il cui valore si è potuto misurare in sorrisi che, finalmente, le mascherine non sono più riuscite a contenere.