Un bel po’ di tempo fa Pitchfork ha pubblicato una classifica dei 50 migliori album shoegaze; in testa ci ha piazzato proprio “Loveless” dei My Bloody Valentine e penso che nessuno di noi si sia particolarmente stupito. Del resto, non esiste album che esprime meglio il concetto stesso alla base del movimento artistico qui considerato.
Questo LP di cui scrivo oggi ci ho messo tanto, troppo, tempo a capirlo: avevo diciassette anni e per caso mi ero imbattuto in un’intervista a Kevin Shields su Rolling Stone (è bello ogni tanto ricordare come la rivista potesse dare questi spunti ai ragazzini come me). Rimasi letteralmente folgorato da quelle parole e da quei concetti. Dall’idea di un muro sonoro apparentemente invalicabile ed esageratamente compatto. Dall’idea di un amore che fosse affrontato con rabbia, distanza ed imbarazzo. Dall’idea di poter ascoltare qualcosa che non fosse troppo immediato.
Avevo diciassette anni, però, e, per quanto tutto questo mi affascinasse, non riuscivo a capire quel tipo di musica. Solo due ascolti in cuffia e la mia copia fisica di “Loveless”, comprata poche ore dopo aver letto quell’intervista, fu riposta sullo scaffale di camera mia su cui rimase per tanti anni.
Erano anni belli, in cui ci si approcciava all’arte senza capirla e si compravano gli album solo per sfoggiarli e ci si addormentava davanti ai film di Terence Malick caricati su Megavideo.
Ovviamente, gli anni passano e gli album ricominciano a girare nello stereo; non per una improvvisa vocazione ma semplicemente per l’incapacità ad arrendersi alla propria inettitudine: non ho mai amato essere uno di quelli che va controcorrente e non mi piace quando non capisco un album che tutti intorno a me chiamano “capolavoro”.
Ora, l’incomprensione è mutata nella forma più incondizionata di amore. Ho voluto prenderla larga proprio perchè penso che la mia storia personale possa essere, in un certo senso, paradigmatica di quella che è la grandezza di “Loveless”: la leggenda di cui si nutre questo album vive di una luce propria che è sfuggente ed. apparentemente, indecifrabile. Fioca, tremolante ma, al contempo, profondamente violenta.
Nell’apertura distorta ed estremamente sporca di “Only Shallow” ci sono tanti spunti che ci parlano di ognuno di noi: il dolore lancinante della melodia ed il dolce magnetismo della voce si fanno mantra, inno, di amore e malessere. Come quella ferita che brucia da morire ma attraverso cui senti il pulsare del tuo cuore. E ti vedi dentro. Il brano sale ed acquisisce consapevolezza con noi, senza mutare mai e ci lascia con uno strano senso di incompletezza che non riusciremo mai a ricomporre nelle successive canzoni.
La bellezza dell’album è tutta qui: nel sapere dare un’immagine dell’amore che sia frutto unicamente delle nostre domande e delle nostre paure, attraverso uno stravolgimento ed un’esasperazione della “forma-canzone” pop-rock. Il brano diventa strumento attraverso cui filtra l’ambivalenza ed il disorientament; così “Sometimes”, “Loomer”, “When You Sleep” sono tutto ed il contrario di tutto. Sono i vocaboli della gioia ricollocati all’interno della sintassi dell’inettitudine. Gli strumenti della ribellione che costruiscono attorno a se un bunker e vi ci si barricano dentro. Le distorsioni, i loop e lacerazioni della chitarra accompagnate dai ricami delicati dei synth.
Trovo che parlare di questo album sia molto difficile: è così sfuggente ed ambivalente da far risultare qualsiasi analisi altamente ingenerosa. Venticinque anni fa i My Bloody Valentine hanno creato un lavoro “ultra-generazionale” che va a convertire in suoni il germe della nostra comune incapacità ad amare fino infondo. Attorno a quel muro sonoro ci sono aggrappati tutte le nostra braccia incrociate, come i lucchetti degli innamorati appesi dappertutto, che ci inorridiscono e ci fanno invidia.
E’ la natura stessa dello shoegaze, che con la band irlandese giunge alla propria massima espressione, che impedisce di racchiudere ogni brano all’interno di etichette e definizioni; tutto si fonda sull’incomprensione, su tutti i livelli. E’ musica incomprensibile che narra di incomprensioni.
In questo senso ho sempre trovato molto indicativo il fatto che li si chiami “ragazzi che si fissano le scarpe”. Che non è solo un modo di presentarsi sul palco ma, piuttosto, un’attitudine all’introspezione più estrema.
A diciassette anni volevo risposte e ascoltavo il punk-pop elementare dei Tre Allegri Ragazzi Morti che canta “Occhi bassi mentre cammini, dentro i piedi che tesoro hai?”
Pensavo che in quella musica potessi trovarci tutto quello che di cui avevo bisogno. La narrazione di un amore che da A si muove verso B e vissero tutti felici e contenti. Tutt’altro, in quelle parole vi era solo una premonizione di quello che avrei vissuto e di quali album avrai tirato giù dallo scaffale e spolverato.
“Occhi bassi” come quelli dei ragazzi che si fissano le scarpe.
Pubblicazione: 4 novembre 1991
Durata: 48:36
Genere: Rock alternativo, Dream pop, Shoegaze
Etichetta: Creation Records
Produttore: Kevin Shields, Colm à“ Càosóig
Only Shallow ““ 4:17
Loomer ““ 2:38
Touched ““ 0:56
To Here Knows When ““ 5:31
When You Sleep ““ 4:11
I Only Said ““ 5:34
Come in Alone ““ 3:58
Sometimes ““ 5:19
Blown a Wish ““ 3:36
What You Want ““ 5:33
Soon ““ 6:58