Dicono che Marissa abbia avuto l’ispirazione per le canzoni di questo suo nono album in parte dalle visioni in lockdown della serie “Unrisolved Mysteries”, omen nomen, e dalla sua volontà di trasposizione di questa istanza di soluzione agli enigmi della vita moderna anche nel liriche personali, che poi si sono da questo assunto innescate.
Nel processo compositivo, seguendo questa impostazione forzata ma per niente scontata, gli scheletri dei brani sono stati poi inviati ai diversi collaboratori di calibro di questo “The paths of the clouds”, tra cui membri di Mercury Rev e Black Mountain in una modalità quasi ordinaria oramai di assemblaggio di gran parte di quello che stiamo ascoltando in questo periodo.
In verità , ciò che si sente qui è un definitivo allontanamento da quel folk pre apocalittico e misterioso che rendeva così attraente il percorso della cantautrice statunitense, che invece approda in queste 11 canzoni in territori decisamente più abbordabili, proponendo un pop soffuso che molto deve in effetti alle atmosfere sfuggenti ed oniriche dei Mercury, dove spesso la chitarra lascia il posto al piano nell’introduzione del giro armonico, una notizia nello stile compositivo di Marissa, che ovatta ulteriormente il timbro della sua voce, qui esile e poco incisiva rispetto alle sue precedenti composizioni.
Ne esce qualcosa di poco coinvolgente, come se questi ritmi lenti ed eterei fossero per lo più sbiaditi, non nelle corde dell’autrice, più per una indecisa conduzione canora che per l’impasto sonoro, prendiamo ad esempio, ma ve ne sono diversi, una canzone come “Elegy”, dove appunto la voce non riesce ad esaltare un tappeto morbido e denso di una murdered ballad che avrebbe meritato qualcosa di diverso; non è tutto così, quando i toni si alzano, arriva una batteria o un semplice riverbero di chitarra come nel singolo “Couldn’t have done the killing” o in “Well sometimes you just can’t say”, c’è maggiore soddisfazione e corpo complementare, l’immaginario misterioso che ricorda la genesi delle stesse canzoni si fonde con questi suoni lynchiani, chitarre vagamente alla Young, ma sono brevi momenti dentro un’idea di album definito e pare anche difeso dalla Nadler che per lunghi tratti non si allontana dal clichè, arpeggio- voce fatata, rendendo quasi subito privo di interesse lo scorrere delle canzoni, non che questo debba essere il principale scopo di un’esperienza sonora, ma più brani si assomigliano troppo e l’atmosfera sa di stantio ed ingolfato.
Marissa prova qui a ridisegnare un pò i confini del suo perimetro musicale e probabilmente questo le farà bene per il futuro, un cambiamento è sempre positivo e farlo nel solco della tradizione del miglior cantautorato americano le facilita le cose, troverà come sembra anche chi facilmente cadrà nella sua rete ammaliante già con questo “The paths of the clouds”, noi la aspettiamo invece al prossimo varco, un pò più consapevole dei propri limiti, senza troppo infierire su questo album pallido come la foto del volto della copertina, proponibile come terza di copertina di un romanzo ottocentesco, che illude ma quasi da subito stanca.
Credit Foto: Nick Fancher