Ho guardato questo “The French Dispatch” a ridosso del ventennale de i “Tenembaum”. E così non ho potuto fare a meno di pensare che già in quella pellicola e in tutte quelle successive tutto era sistemato minuziosamente, cromaticamente, geometricamente. Fino al più piccolo gingillo.
Mai però dopo aver visto i “Tenembaum” o, avvicinandoci un po’ più ai nostri giorni, l’altro capolavoro “Moonrise Kingdom”, la prima cosa a venirmi in mente sarebbe stata l’estetizzazione totalizzante applicata dal regista. Piuttosto avremmo sottolineato come la palette dei colori e l’architettura della scenografia fossero funzionali alla sottolineatura delle emozioni dei personaggi.
Decisamente diverso è quello che succede invece in “Grand Budapest Hotel”. Dove l’estetica e gli ospiti illustri al chilo del film schiacciano tutto il resto, la trama esile, il dolore appena percettibile dei protagonisti – facendo registrare così quella che è probabilmente la peggiore prova del regista americano.
Va un po’ meglio in questo gigantesco omaggio ai tempi d’oro del New Yorker e delle sue mitiche illustrazioni, dove almeno l’eccezionale lavoro di cesello scenografico e costumistico è funzionale alla celebrazione.
Una cosa va infatti detta, la perfezione formale raggiunta da Anderson e il suo team in questo film non ha precedenti, tutto è perfetto. I quadri (ora a colori ora in bianco e nero) sono a tutti gli effetti dei quadri di quelli che si potrebbero appendere in un museo, l’utilizzo dell’animazione e dei set teatrali per conferire ulteriore dinamismo alle scene è semplicemente geniale. Anderson si conferma dunque regista di livello altro.
Manca però qualcosa, un bel po’ invero, dal punto di vista della sceneggiatura. Va bene l’omaggio, va bene la divisione in capitoli immaginati come articoli, ma due terzi della storia fanno letteralmente cilecca – con uno solo dei tre episodi capace di intrigare e colpire il bersaglio (il secondo).
L’unica cosa che funziona davvero nella maniera in cui è stato scritto il film è il ruolo dei giornalisti come parte viva delle storie che raccontano, tocco questo capace di innescare la nostalgia verso la carta stampata di un tempo.
Inutile tessere le lodi del solito cast, al solito composto sia da aficionados del cineasta che da new entries. Tutti quelli cui è stato assegnato un minutaggio decente lo hanno onorato.
Quelli apparsi per comparire un solo fotogramma, invece, c’era bisogno davvero di chiamarli? Lo so che è quasi una “signature”, che tutti questi “nomoni” vanno là con piacere e per affezione, ma questa volta la cosa è proprio parossistica, dacchè alcuni compaiono letteralmente un secondo.