#10) ROYAL BLOOD
Typhoons
[Warner]
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Il terzo album del duo di Brighton è una sorta di “ALL-IN”, o la va o la spacca. Una virata più commerciale rispetto ai precedenti, aggiungendo al sound fuzzy, funky, a tratti stoner, della ottima ritmica dance per catturare i fan orfani dei Duft Punk oppure quelli che amano i Justice o gli M85. La chicca “Boilermaker” prodotta da Josh Homme vale il prezzo del biglietto.
Danzabile.

#9) GOD IS AN ASTRONAUT
Ghost Tapes #10
[Napalm Records]
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Se avete un’anima, cupa, dark, doom e volete intraprendere un cammino oltre i dettami del rock questo disco fa per voi. Una splendida macchina sonica della band irlandese alla decima fatica riempirà  tutti gli spazi della vostra abitazione, fatta di riff graffianti, ritmiche pesanti e roboanti. Tra prog, post rock e doom metal traccia una linea trasversale che connette molti palati.
Sognabile

#8) SHAME
Drunk Tank Pink
[Dead Oceans]
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Mi avvicino con una certa cautela a questo fenomeno dilagante del post-punk di questi anni (Fontain DC, Idles) perchè c’è ancora qualcosa che non mi convince appieno. Però questi Shame mi hanno folgorato subito, con un disco scomposto, a tratti cupo ma denso di energia. Non senza bizzarrie che mi rimandano agli XTC, ai Wire e scomodano persino i Talking Heads.
Il brano “Snow Day” vale l’acquisto del vinile (ovviamente rosa).
Energizzabile.

#7) SONIC BOOM
Almost Nothing Is Nearly Enough
[Carpark Records]
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Pete Kember è un genio riconosciuto come tali da pochi. Il suo album originario, di cui questo è la versione remix aveva lasciato la critica piuttosto tiepida. Ma la sua versione remix dona allo stesso una luce diversa, con sfumature di Kraftwerk, Giorgio Moroder, talvolta Blondie ad aggiungersi alla solita psichedelia Velvet Undergound ed il minimalismo spinto e ripetitivo dei Suicide. Una dose booster che proietta questo album tra i preferiti dei 12 mesi passati.
Iniettabile.

#6) BLACK COUNTRY, NEW ROAD
For The First Time
[Ninja Tune]
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Sembrano provenire da un’altra dimensione, come usciti dal Tardis di Doctor Who, con quella espressione di sorpresa mista a meraviglia. I BCNR sono inclassificabili, forse post-everything. Scomposti, destrutturati, talentuosissimi, con una traccia vocale teatrale. Originalissimi e trasversali, abbracciano mezzo secolo di musica, dai Funkadelic agli Slint, fino ai Radiohead di Kid Amnesiac.
Inconcepibili.

#5) LINDA COLLINS
Tied
[Urtovox]
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Il miglior disco “italiano” del 2021 viene da un collettivo con base a Torino, i Linda Collins. Il sound mittel-europeo impone il virgolettato sulla definizione di album italiano: sembra un lavoro dei Notwist, dei dEUS o dei Tarwater. Piace istantaneamente fin dai primi solchi del vinile, con questo gusto lo-fi, dream -pop e post-rock. Il fatto che si tratti di musicisti consolidati da varie esperienze passate (Olla e Caplan su tutte) rende l’album forse sospeso nel tempo, quasi indefinibile. Che, come Collins, il terzo astronauta, aspetta il rientro dei compagni, per riportarli a casa.
Allunabile.

#4) GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR
G_d’s Pee AT STATE END!
[Constellation Records]
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Per quanto tempo ancora ci faremo rapire dai canadesi GY!BE? La pipì divina sulla fine degli stati (più o meno la traduzione del titolo) è quello che si augurano gli artisti nord americani da sempre contro lo stato delle cose. Lo dichiarano facendo ancora una volta a pezzi la struttura della musica, i brani radiofonici, quelli da condividere tramite le piattaforme di streaming. Se volete ascoltarli dovete prendervi il vinile (che ha un 10″ in omaggio) e lasciare che la melodia scomposta si impossessi di voi.
Scomponibile.

#3) LONDON GRAMMAR
Californian Soil
[Ministry of Sound Recordings Ltd.]
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Non sbagliano un colpo, quei tre di Nottingham. Terzo album e li troviamo ancora sul podio dei dischi dell’anno. Sale definitivamente in cattedra Hannah Reid e la sua voce intrisa di Florence Welsch ed il giusto phisique du role. Sicuramente è l’album più commerciale del gruppo, dove “How Does It Feel” sa di Daft Punk e “Californian Soil” ha il gusto dei Massive Attack. Me le storie complicate che la Reid ci narra, tra amori disillusi, violenze domestiche e terre promesse e mai mantenute si adagiano perfettamente sul pattern sonoro di un trip-hop contemporaneo ed evoluto fino a strizzare l’occhiolino alla dance.
Imprescindibile.

#2) WOLF ALICE
Blue Weekend
[Dirty Hit]
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Già  la copertina dell’album è emblematica: la band ad una fermata, che sembra aspettare il passaggio del treno giusto, quello del successo. In effetti non c’è bisogno. Siamo ormai all’apice, abbiamo un gruppo con un sound maturo e carismatico. La capacità  di Ellie Rowsell, voce e anima dei londinesi Wolf Alice, di variare dal post-punk al dream pop lascia davvero senza fiato. Dapprima si socchiudono gli occhi per “Lipstick On The Glass”, poi si spalancano per “Smile”. Tra queste tracce si percepiscono essenze di Kate Bush, di Cocteu Twins, di Lana Del Rey e di Florence + The Machine. Di quei profumi che rimangono sulla pelle anche dopo la doccia.
Essenziali.

#1) MOGWAI
As The Love Continues
[Rock Action]
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Facciamo la recensione al contrario, cominciando da come concluderei l’estratto: e l’amore per la band scozzese continua, anche dopo questo ennesimo capolavoro. A prescindere dal verso in cui vogliamo vedere la cosa, il risultato non cambia. Sono più di 25 anni (e 10 album) che i Mogwai ci sorprendono con il loro stile controcorrente, post-rock, noise-rock, sperimentale. Persino inserire un brano interamente cantato con tanto di verse-chorus-verse (Ritchie Sacramento) sembra rivoluzionario. Gli inserti di moog, essenze kraut e tocchi di Bowie rendono estremamente familiare questo disco, accomodandoci nella nostra comfort zone.
Confortevole.