Onestamente non avrei mai immaginato che le sorelle Wachowski (meglio, la sola Lana Wachowski ormai) potessero farne un altro; eppure c’è, eccolo. Cosa dovrei scrivere? Una recensione al quarto capitolo? Un omaggio? Niente di tutto ciò visto che la recensione “ufficiale” arriverà a breve, piuttosto voglio mettermi alla prova, tentare in poche righe di capire quanto “Matrix” sia così miliare, abbia così segnato il cinema e il genere sci-fi da restare per sempre nella storia, quarto capitolo o meno.
Eppure, la trilogia delle Wachowski non fa altro che riprendere temi già sfiorati, toccati, affrontati dalla fantascienza scritta e su celluloide negli ultimi cinquant’anni. Il metafisico come realtà altra, forse vera, forse pura, magari assoluta rispetto al reale percepibile invece con i nostri sensi, e poi il rapporto con la tecnologia e con il web che tanto condiziona la nostra coscienza, il mondo digitale che ci porta a creare un “altro” da noi. Neo siamo noi, siamo quello che Thomas prova e sente. Il dubbio iperbolico cartesiano si insinua in noi, ci seduce e ci spaventa. E se nulla esistesse? Cartesio lo poneva come sostrato per comprendere che esiste una autocoscienza, Pris in “Blade Runner” usa il dubbio come massima espressione di vita dei replicanti, ma Neo/Thomas se ne serve per “essere” in questo e nel mondo “altro”.
“Matrix” fonde filosofia (Platone, Cartesio) e morale attraverso mille altri ingredienti (si, anche le droghe come veicolo) per farci capire che esiste, come sosteneva Schopenauer il velo di Maya che oblia la vera realtà , il velo che ci impedisce di vedere. Neo ci accompagna tra conoscenza, sapienza, visioni apocalittiche (prese in presitito da Dick, Orwell e Gibson) e fascino sinistro dell’ignoto e della tecnologia, una tecnologia figlia dell’uomo ma sua distorta padrona.