Ogni stagione di “After Life” inizia con i personaggi, soprattutto Tony, un passetto o un passo indietro rispetto a come li avevamo lasciati. Perchè il dolore, la depressione sono fatti così. Anche quando sembra di averli in parte risolti, elaborati, sono lì in agguato a riportarti un passo indietro. E un passo indietro alla volta non si va da nessuna parte, non si arriva al traguardo, non si supera niente. Ammesso che un qualcosa lo si debba necessariamente “superare”.
Saper raccontare il dolore e le sue dinamiche è forse il pregio più grande dello show di Ricky Gervais, che in questa terza e ultima stagione sublima questa sua capacità , senza assolutizzare o banalizzare, fornendo molteplici letture e punti di vista, soluzioni.
Permettendoti di entrare così indentro la psiche di Tony, facendoti empatizzare così tanto con lui che, quando sul finale si allontana lentamente dalla camera, sai che ti mancherà da morire. Come un amico.
Inutile aggiungere altro, ma qualche ovvietà ve la sparo comunque.
Ci si piscia sotto dalle risate. Alcune gag sono veramente oltre ogni limite di cattiveria e decenza. Insomma: Gervais che fa Gervais. La scena al pub ad esempio. O Doctor Barnaby. Doctor Barnaby! Voglio una cazzo di serie su Doctor Barnaby!
La colonna sonora è super super. Dai Radiohead (nemmeno una scelta banalissima) a Joni Mitchell, dai DCFC (scelta da brividi) a Cat Stevens, da Bob Dylan a Rod Stewart.
Gervais è sicuramente e ovviamente al centro del progetto, ma “After Life” non è un One Man Show, bensì un lavoro corale con quasi tutti i personaggi tra il riuscito e il riuscitissimo.