A Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett in pratica è riuscito tutto quello in cui Lana Wachowsky ha fallito con la sua resurrezione di Matrix (di cui ho scritto proprio in questi giorni). Entrambi i film sono infatti totalmente impregnati dalla riflessione dei loro autori sull’asfittica tendenza del cinema moderno al riciclo (sequel, reboot, requel, come nel caso di “Scream”). Al punto che la riflessione metacinematografica sia tanto importante per l’economia dei film quanto la loro trama.
“Scream” è però un gran bel film e “The Matrix Resurrection” un mezzo aborto.
La differenza sta nel fatto che la Wachowsky non è riuscita a far si che la riflessione diventasse una parte stimolante del plot, bensì un continuo e incombente ingombro, mentre invece gli sceneggiatori e registi di Scream hanno saputo farne un punto di forza, un’inestinguibile fonte di trick narrativi. Certo ha aiutato anche la natura metacinematografica di partenza del canone craveniano, ma tanto ce lo hanno messo anche loro.
Come da tradizione della celebre saga slasher si salta spesso dalla sedia, si gioca ad indovinare il killer e si osservano con attenzione le dinamiche di gruppo, anzi in questo caso dei gruppi – quello nuovo, che fa del film un reboot, e quello originario, che fa del film un sequel (requel per l’appunto).
Chi conosce bene la saga, tante cose se le aspetterà anche, ma può stare certo che non accadranno mai nel momento in cui le attende.