Quando la poesia , con la sua forza dirompente, riesce a trovare una sua caratteristica e toccante strada sonora, andando al di là , di conseguenza, delle parole e del loro significato logico, ma riuscendo a colpire, in maniera diretta e immediata, la sfera emotiva di ciascun ascoltatore, ovunque egli si trovi in questo preciso momento, indipendentemente dalle sue coordinate geografiche, ebbene, stiamo parlando di un’opera eccezionale, un’opera capace di creare legami duraturi tra le diverse sensibilità umane.
Questo è il solco significativo sul quale scivolano le malinconie minimali, nonchè il naturale bisogno di fiducia e di speranza e la voglia di conoscere e di farsi conoscere che caratterizzano quest’ultimo disco di Kae Tempest. In una società che tende a nascondere i propri difetti, che vive di un ideale fallace di perfetta bellezza, che spreca il proprio tempo a maschera le sue ipocrisie, le sue assurdità e le sue ossessioni, l’artista inglese cerca, attraverso le vibranti sonorità dub e hip-hop di “The Line Is A Curve”, di aiutarci a ritrovare la genuinità delle nostre idee e dei nostri sentimenti, senza farci più affossare dalla paura o, ancor peggio, dalla vergogna.
Il disco è, infatti, allo stesso tempo, intimo, ma è anche estroso, desideroso, cioè, di invadere, con la fluida leggerezza delle sue armonie e le sue molteplici ed eterogenee collaborazioni, mondi musicalmente lontani e differenti tra loro. Non esiste un’unica direzione, un unico modello di riferimento o un’unica teoria che debba avere, necessariamente, la precedenza sulle altre; il rap, un incisivo riff di chitarra, la linea ritmica di un synth, una melodia verbale, l’urgente bisogno di far sentire la propria voce, ci mostrano come, in realtà , tra due punti, non esiste un’unica linea retta, ma un insieme assolutamente caleidoscopico, stimolante, sbalorditivo di trame umane che si muovono attraverso i nostri sensi, i nostri umori ed i nostri sogni. Esse cambiano e si trasformano di continuo, unendo universi che pensavamo essere totalmente disgiunti gli uni dagli altri. Ma, invece, è bastata una semplice parola, il verso di una canzone, la rima di una poesia, per dimostrarci che, ogni qual volta riusciamo a liberarci di ciò che ci portiamo, dolorosamente, dentro, diventiamo sì più fragili, ma, allo stesso tempo, ci rendiamo conto di quanto siamo simili; più di quanto ci avessero insegnato la storia o la geografia, più di quanto ci suggerissero le religioni e le filosofie, più di quanto sostenesse la rete globale delle informazioni, più di quanto potessero prevedere e dimostrare il progresso scientifico o le conquiste tecnologiche.
Queste curve sono la migliore risposta all’intolleranza e al razzismo, sono l’unico e vero antidoto contro la cultura dell’odio e il nichilismo esistenziale che distrugge le nostre relazioni, rendendoci automi insensibili e senza più memoria, intrappolati in una dimensione senza tempo nella quale è sempre oggi, è sempre ora, è sempre adesso, ma è sempre troppo tardi per ribellarsi e cambiare le cose. Vogliamo davvero vivere ed essere parte di questa linea monodimensionale senza l’amore che risuona tra le pieghe di “Grace”?