C’è da stare poco rilassati alle prese con l’ultimo Pink Mountaintops, 8 anni e una pandemia fuori dalle scene, da un supergruppo costola di un supergruppo, che ci ricordavamo come brioso miscelatore di diversi generi, con dischi che celavano il palese tentativo di dare delle risposte onnicomprensive ad una indifferenziata esigenza di rock sostenibile.
In virtù di questo, non c’è niente di più simile di questo “Peaock pools”, coniato dalle riflessioni pre e post Covid del leader degli altrettanto sopiti Black Mountain Stephen McBean che, radunati un pò di ex compagni a sto punto della band primigenia e altri illustri ospiti, plasma un album che ha i tratti di una liberazione, una fuoriuscita di suoni inespressi di una rinnovata volontà di esplorazione dei meandri più cari del rock.
Traspare in effetti un latente senso di esibizionismo dall’ascolto, al pari dell’eloquente, per usare un eufemismo, copertina, banalmente e inconsapevolmente kitch, che esplica ancor di più di queste canzoni un pò l’aria che tira in “Peacock Pools” , che trasuda una potenza dei suoni sostenuta da una produzione ad alto livello di rumore tipica di un certo suono mainstream anni ’80, con una batteria piatta molto molto aperta, dei synth a volte sovradimensionati, con un impasto monodimensionale che spesso crea la sensazione che l’impeto vada oltre il senso della compiutezza dei singoli brani.
Di fatto, ci si trova con una eterogenia di generi da luna park del rock, passando tranquillamente dalla ballata classica, al synth pop (“Blazing Eye”, esperimento poco riuscito), al’AOR alla Van Halen (“Lights of the City”), per finire al metal di “All This Death Is Killing Me” che sarebbe piaciuto ai fan dei Metallica; insomma, un pò troppo, non senza le migliori intenzioni, che queste non è che non si intravedano anzi, la caratura di un sincero amante della sua musica McBean ce l’ha e il suo percorso di ascoltatore sicuramente lo fa testimone di diverse sensibilità musicali, aspetto da sempre pregio per chi apprezza la varietà nelle cose ma pare che il senso dell’eccesso non sia mai pervenuto, quando già dal primo ascolto dell’album, le migliori canzoni sono quelle che riescono a contenere una sensibilità e probabile ispirazione più mirata, come la cover dei Black Flag l’iniziale “Nervous Breakdown”, la successiva “Nikki Go Sudden”, la bella quasi wave “Muscles”, soprattutto la splendida finale “The walk”, gran ballata con organo caldo, incrocio fra gli Stones di “Sticky Fingers” e un certo stile psych pop alla Geroge Harrison che si può ritrovare anche nelle altre zone melodiche di “Peacock Pools”.
Un album che comunque merita attenzione, che vuole essere ascoltato, che riprende un tragitto interrotto e decisamente ormai inatteso di un side project fortunato, che mantiene comunque ferma la convinzione di aderenza ad una fare musica molto genuino, nelle corde del bravo giocoliere McBean, che dal suo trono e dalle sue chitarre in vista interpreta a suo modo la celebrazione di un’antica arte, fatta di mestiere e amicizie, di intuizioni e di sensibilità .
Magari la prossima volta, un pò meno alti volumi e un pò più di omogeneità , ma va bene così.
Credit Foto: Laura Pleasants