di Enrico Sciarrone
Si potrebbe legittimamente dire che è una mera questione di business, dettata da una industria discografica, ben consapevole della forza che il brand Bauhaus evoca nel mercato musicale e dall’interesse, mai sopito, che suscita ancora tra il pubblico a convincere i nostri beneamati, ciclicamente ogni 10/ 15 anni, non solo a riunirsi, ma a condividere spazi di vita ed esperienze impegnative come tour in lungo e in largo per gli Stati Uniti o per l’Europa spesso confrontandosi con audience esigenti e competenti. Convinzione ancor più legittima se ripensiamo che, dallo scioglimento del gruppo avvenuto nel ’83, i quattro membri abbiano sempre puntualmente dichiarato negli anni, con un po’ di astio, di non aver piu’ nulla da dirsi, con una contrapposizione piuttosto netta tra i vari componenti, emersa anche nei vari progetti musicali postumi (vedi Love and Rockets di D.Ash e fratelli Haskins, Dali’s Car di Peter Murphy, Tones on Tail di Daniel Ash e Kevin Haskins).
Con questi presupposti, fin dalla prima reunion del 1998 , è stato chiaro che sarebbe stato illusorio attendersi qualcos’altro che non comprendesse l’attività live. Rassegnati quindi a non vedere un proseguo degno della produzione musicale che ha reso grandi e immortali i Bauhaus nel panorama gotico internazionale, eccoli oggi tornare in Italia per la loro terza reunion in una unica data a Milano all’Alcatraz (location quanto mai azzeccata e quasi stracolma) nell’ambito di un breve tour europeo collocato nel mezzo di un piu ampio progetto che ha portato e porterà i nostri a suonare in quasi tutti gli Stati Uniti.
L’offerta musicale della serata è più o meno quello che ti aspetti, non ci sono sorprese nella scaletta, la classica greatest hits di 16 brani che ripercorre con chirurgica precisione tutti i momenti salienti della loro carriera. Detto questo, non si è trattato affatto del classico compitino svolto con sufficienza, di mestiere e d’esperienza, con la band corpo estraneo e distante dal contesto dell’avvenimento, ma piuttosto di una straordinaria serata con una performance di altissimo livello. I quattro erano in formissima, un Kevin Haskins impressionante metronomo, un David J perfetto con le sue linee di basso a supporto della ritmica, le incredibili sonorità della chitarra di un Daniel Ash ispiratissimo e, dulcis in fundo, un Peter Murphy davvero padrone del palco con la sua inconfondibile voce che non conosce incrinature. Ma il talento da solo non basta.
Le discriminanti che hanno decretato il successo della serata sono state essenzialmente due . La capacità e la “disponibilità ” della band nel coinvolgere costantemente la platea, di emozionarla in ogni momento, con una performance sincera che ha toccato il cuore dei presenti, interpretando ogni brano con intensità ed emotività che non hanno lasciato indifferenti. Infine, hanno, a mio parere, lavorato molto bene nell’aspetto della proposizione al pubblico, evitando di cadere nella trappola, comune a molti gruppi anni 80 tornati recentemente alla ribalta, di essere tristi parodie di se stessi, del tempo che fu, di ciò che è stato, reiterando modelli e atteggiamenti legati ad un tempo. Mi piace sottolineare a tal proposito la grandissima performance scenica di Peter Murphy, che appare ormai non piu’ prigioniero di un clichè legato al personaggio dalle forti tinte “ipnotico demoniache” degli esordi, ma perfettamente a suo agio, disinvolto, nella sua maturità artistica reinventandosi pur rimanendo se stesso.
Dopo un ora e un quarto (bis compresi) tutto termina e il pubblico defluisce in ordine, consapevole che piu’ di cosi non si può.
Foto: Enrico Sciarrone