Ho sempre pensato che nella musica di Nick Cave vi sia qualcosa d’inquietante. Finisci l’ascolto e rimani schiantato, estasiato, ma hai paura all’idea di ricominciare da capo. Con il film di Andrew Dominik succede lo stesso. Direi che, dopo la sua visione, stai tra il terrorizzato e il rasserenato. Ossia, un mix di entrambe le cose: inquietante.
“This Much I Know to Be True” non è esattamente un film concerto. Troppe le sovraincisioni e gli editing innestati sulle esecuzioni di queste canzoni. E’ piuttosto una performance cinematografica, a cui, aggiungendo un pò di parole dette dalla coppia Nick Cave/Warren Ellis, si ottiene il risultato di chiarificare, un pò meglio ma mai definitivamente, da dove la loro musica viene e dove approda.
Era già chiaro, prima ancora di questo film, che ci fosse una linea di continuità innanzitutto musicale, tra “Ghosteen” e “Carnage”. Seppur accreditato l’uno ai Bad Seeds e l’altro alla coppia. Era chiaro e questo film lo mette in piazza, che si tratta di due opere, concepite e realizzate dai due australiani, in quasi solitudine, almeno per la parte concettuale. Nel film si passa linearmente da un disco all’altro, come se fossero un unicum.
Tra un pezzo e l’altro, Cave ci racconta il messaggio a un suo fan che gli scrive nei “Red Hand Files”: “non siamo in controllo delle nostre vite“, dice il nostro, “la linea che ci separa dall’abisso è sottilissima in ogni momento della nostra esistenza“, “ma non siamo senza potere“, “possiamo decidere come reagire a questo“. Una filosofia molto semplice (a parole) che evidentemente è servita a Cave per non sprofondare nell’abisso dopo una serie di tragedie, come la perdita di due figli giovani, anzi giovanissimi (uno solo all’epoca in cui si girava il film).
D’altronde, “what doesn’t kill you, makes you crazier”, canta su The Balcony Man. Eh beh, loro due appaiono proprio come degli invasati, mentre eseguono la loro musica. Invasati in preda a spasmi musicali, in preda a uno stato trascendentale, effetto di una musica e dei testi che non sono certo di ovvia e immediata comprensione. Eppure, riescono a parlare e raggiungere masse sempre più vaste di persone nel mondo. Comunicando a un livello, probabilmente, pre-razionale.
Tutto ciò, mi perdonerete se potrebbe risultare non chiarissimo. Ma lo sarà solamente se non vi è mai capitato di perdervi nell’ascolto dei due dischi succitati, opere sublimi, forse le più grandi mai realizzate dal cantautore australiano. E, visto il film, si capisce perchè, ora che ha trovato in Ellis un’anima complementare, che riesce a finalizzare perfettamente in musica le sue geniali intuizioni. Nel film vedi cose prima non chiarissime: per esempio, sono di Ellis le voci bianche, come quella di “Hand of God”; oppure, puoi vedere davvero a cosa serve e come si suona un glockenspiel (su “White Elephant”).
Ed è questo il compito perfettamente assolto, da Dominik, il risultato chiarificatore che sicuramente ha raggiunto dopo aver chiuso i due in un suggestivo studio, con un pugno di musicisti e cineoperatori. Cito appena la fantasmagorica apparizione di una Marianne Faithfull non proprio in smagliante forma fisica, ma certamente in piena forma morale e intellettuale. Apparizione il cui significato rientra nel novero delle cose non chiarissime di cui sopra.
E alla fine della vostra visione, se resteranno dubbi su quel che avrete appena visto e sul tornado caveiano di emozioni e sensazioni che vi avrà travolto, non è certamente a me che potrete rivolgervi per spiegazioni. Come direbbe Nick, io non sono un critico musicale (tantomeno cinematografico), ma cerco innanzitutto di essere una persona, un marito, un padre, un amico che fa anche il critico. E “questo è quanto so essere vero”: aggiungere altro sarebbe un peccato di fronte ad una bellezza così limpida e ovvia che lascia senza parole.