I black midi sono tra le punte di diamante di quella “scena di Windmill” che annovera anche Squid e Black Country, New Road, nonchè i primi ad avere esordito su lunga distanza con la veemenza noise/math di “Schlagenheim” (2019), prima dell’abbandono del secondo chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin (narrasi per problemi mentali, tanto per capir l’andazzo) e la conseguente apertura alle avanguardie prog dei tardi anni “’70 in “Cavalcade” (2021). Il terzo “Hellfire” esce dunque a poco più di un anno di distanza da quell’ultimo lavoro, che aveva sollevato tanti punti esclamativi quanti quelli interrogativi, seguendo una prassi iper-produttiva già consolidata dai BC, NR (due dischi rilasciati in 365 giorni spaccati).
Bene, ascoltiamocelo!
Il rap zoppo della title-track, sullo sfondo di un requiem, schiude le porte alla teatrale baldoria di “Sugar/Tzu”, classico (per loro) incrocio fra la psicosi post-punk, un’aria di Broadway e il crooning di Frank Sinatra, in un vocal-jazz d’antan (introdotto da uno speaker) che nel finale si attorciglia in un groviglio impazzito come volendosi disintegrare per forza entropica. “Eat Man Eat” trasmuta un teso flamenco in un racconto surreale (reminescente della “Good Morning, Captain” degli Slint), puntellato da stranianti pause melodiche, dissolvendosi anch’esso in un magma ribollente, tra grida di battaglia e grugniti bestiali. Il tema conduttore è, non a caso, la guerra e le storie che vi si possono ambientare quando la normalità cede il posto alle morbosità più inumane.
L’altro singolo è “Welcome to Hell”, declamato sbilenco, ritmo ipnotico, inserto vaudeville d’ordinanza, e giù a scapicollarsi a testa bassa verso le linee nemiche, poi travolti da un’ingombrante orchestralità che lambisce il metal d’avanguardia. Questo trittico è già sufficiente a far guadagnare al disco un posto di rilievo fra le uscite di quest’anno. Ci si riappropria di ritmiche e timbri leggermente più canonici in “Still”, incursione (per loro) tra il country e il folk, ma sempre sostenuti da quel tono luciferino e di ansia perenne che rivolta la struttura di ciascun brano a ogni piè sospinto.
La seconda parte è leggermente inferiore, ma non mancano sfizi graziosi.
“The Race Is About to Begin” riprende dallo stesso riff di “Welcome to Hell” e con essa ricompone un dittico quasi simbiotico. “Dangerous Liaisons” è al limite della bossanova, ma con carboni incandescenti che crepitano sotto i piedi. “The Defence” è la versione aggiornata (per loro) del pop natalizio per famiglie abbienti che ignorano le dinamiche del mondo contemporaneo mentre si gustano il cappone al forno (peccato che il testo narri delle riflessioni del proprietario di un bordello, il quale conclude che, dopotutto, la sua attività non è poi così diversa da quella di una banca).
I black midi, abbracciando un universalismo sia storico che geografico, hanno creato un improbabile “post-progressive” che attinge a piene mani da ogni deriva sperimentale degli anni “’70 (l’avant-prog degli Henry Cow, la variante “zeuhl” dei francesi Magma, dei belgi Univers Zero e degli Art Bears, anche se il capostipite e nume tutelare incontrastato resta Frank Zappa, ed ovviamente il krautrock tedesco), “’80 (no wave e noise, i primi vagiti di musica industriale “sinfonica” di Jim Thirlwell ““ aka Foetus, ed ovviamente il post-punk delle periferie inglesi settentrionali) e “’90 (tra cui gli italianissimi Zu, da cui prendono derive noise/jazz, ed ovviamente il math-rock della scuola americana).
Forse, anche alla luce del recente trionfo di critica dei Black Country, New Road, ricondurre questa corrente ad una semplice “nuova ondata” di post-punk inglese va considerato riduttivo: questi ragazzi non solo sanno suonare divinamente, ma conoscono a menadito sia la struttura e le frontiere della musica “colta” e d’avanguardia, che le corde e i giusti nervi da stuzzicare tra gli amanti di quella alternativa, vecchi o nuovi che siano. L’unico rischio è che resti un esperimento caotico ma cerebrale, fine a sè stesso, che non si lasci sciogliere nel sacro fuoco del rock ma rimanga piuttosto un esercizio di stile per circoli intellettuali, esclusivi e un po’ snob. Ma se non fosse così, la sensazione è che la parabola dei black midi non passerà inosservata, e all’annosa (e svilente) questione de “il rock è mortooh” si dovrà allora rispondere con un laconico “NO”.
Credit Foto: Atiba Jefferson