Ci sono proprio degli album che attendi e sai già che non ti deluderanno, perchè il percorso tracciato dall’artista non ti ha mai fatto storcere il naso e quindi il disco non potrà che essere la felice conclusione di un percorso. Con Launder e il suo “Happening” succede proprio così. Di John Cudlip parliamo già da un po’ e le sue frequentazioni con eroi del calibro di Jackson Phillips (Day Wave), Soko e Zachary Cole Smith (DIIV) ci hanno sempre fatto capire che lui è uno valido, uno di cui fidarsi. Qualcuno ne parlava come di una via di mezzo tra “lo-fi degli anni ’90 e lo shoegaze” e, tutto sommato, i singoli e i brani che hanno anticipato questo album rispecchiano un po’ questa dictura. Ora però c’è da dire che il buon John ha lavorato alla grande in studio, assieme a una band che lo asseconda alla perfezione e lo accompagna in tutti i suoi spostamenti sonori tra indie-rock tipicamente anni ’90 e shoegaze.
“Sento di essermi evoluto in uno scrittore molto più autonomo rispetto agli EP e ai 7 pollici, ma non avrei potuto fare questo disco senza la band. Le canzoni hanno preso vita in sala prove con loro, è stato come se si fosse acceso un interruttore“. Lo dice lui stesso, a testimoniare che l’alchimia in studio ha dato i suoi frutti. Il disco è piuttosto lungo, ma non stanca, spostando il tiro da momenti più epici e melodicamente accattivanti ad altri in cui l’ambiente si fa davvero scuro e pesante. “Unwound” ha quella chitarra liquida e lancinante che ci fa impazzire, mentre “Intake” è uno dei vertici dell’ intero lavoro, con un ritornello da mandare a memoria e atmosfere quasi tramandate da Peter Hook.
Bisognerebbe citare praticamente ogni brano, visti i particolari e i passaggi sonori che ci catturano spessissimo nell’ascolto, ma corro il rischio di dilungarmi troppo. Sta di fatto che non riesco a non nominare “On A Wire” per quello struggente assolo finale (e vi assicuro che in fatto di assoli struggenti ne sentirete tantissimi nel disco, uno su tutti in “Rust”), il trionfo melodico della sbarazzina “Harbour Mouth”, la rabbia quasi grunge che pulsa in “Parking Lot” e la freschezza pop di “Chipper” che pare uscire dalla penna di un Jackson Phillips particolarmente ispirato.
La chiusura di “Lantern”, di oltre 8 minuti, potrebbe spaventare per il suo incedere greve, invece è un pezzo magnifico, che mi riporta a dei Catherine Wheel narcolettici e poi il finalone distorto è tutto da vivere.
Bravo John!
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